Il giornalismo è una professione che ricalca l’aspetto pragmatico di un evento, di una situazione, di un momento. Spesso e volentieri si preferisce la cruda verità all’emozione, alla passione di un momento che rimarca pathos, partecipazione, felicità. Stavolta il racconto di un “momento”, durato qualche ora, lo lasciamo al sentimento, al battito di un cuore che nel pulsare ricorda la bellezza dell’emozione e della condivisione.
La musica è la principale attrice, il castello di Monteroduni la scenografia, l’Eddie Lang Jazz Festival la trama. La serata è decisamente di quelle, in tema di calura, di un’estate volta a cambiar pagina. Un venticello fresco soffia tra le feritoie di mura antiche che, sovrastate da torri, fanno buona guardia ad un via vai di persone che assiepano il giardino. Persone non in armatura ma in tenuta sportivamente classica venute da ogni dove per assistere e condividere artisti di fama internazionale, che solo l’Eddie Lang può proporre in onore del mentore di un piccolo borgo molisano che ebbe a sovrastare le distruzioni guerrafondaie di padroni e servi, di militari vincitori e umiliati perdenti.
Pian piano il colore della notte si accinge a dichiarare la pace alle oscurità celebrali e deporre le armi a favore della fusione musicale di un estasiante gruppo capeggiato dal mitico Stanley Clarke.
Un condottiero vestito della sua magia musicale che arma di passione e professionalità di cinque giovani musicisti dal colore della pelle variegato ma decisamente luminescente. Le stelle e strisce condizionano l’interpretazione che gode della luce magica di una notte di stelle tutta Italiana. Basso e contrabasso, chitarre, batteria, tastiere, fiati, voce si fondono in contesti senza tempo e senza retorica della scala musicale dettata da spartiti invisibili, letti magistralmente quasi sembra un gioco.
Effetto di una notte di stelle soffiate da aliti di vento che strizzano l’occhio alla buona interpretazione, alla voglia di stupire e stupirsi, alla forza di un magico tempo dettato da scansioni metronome acuite dall’urlo del sax e della chitarra, dalla voce delle tastiere e dallo stridulo possente di mani che maneggiano corde e si pongono al cospetto della perfezione. Stellari! verrebbe da urlare. Le voci son corroborate dalle mani e tutto diventa una esplosione di colori che illuminano la notte del 28 luglio 2023, e riportano il maniero, una volta dei “Pignatelli,” a un ricco e sfarzoso palazzo pieno di vita e mai più visitato da guerresche figure atte al male.
Stanley Clarke, classe 1951,bassista, polistrumentista, compositore statunitense fra i più influenti e apprezzati degli anni settanta ha vinto 5 Grammy Awards, 3 come artista solista, 1 con la Stanley Clarke Band, e 1 con i Return to Forever. Ha vinto anche un Latin Grammy nel 2012 con Lenny White e Chick Corea per l’album Forever. Tra i più influenti per tutto il periodo jazz-rock e tra i bassisti più imitati prima dell’avvento di Jaco Pastorius è dotato di una grande tecnica, virtuoso e versatile, ha speso gran parte della sua carriera fuori dagli ambiti del jazz.
I suoi riferimenti, come contrabbassista, sono stati maestri dello strumento quali Jimmy Blanton e Oscar Pettiford. La svolta nella sua carriera avviene quando si unisce al gruppo Return to Forever guidato dal pianista Chick Corea. I RTF incominciano a suonare musica jazz-rock e Clarke diviene il mago del basso elettrico e il musicista di tendenza del gruppo.
La sua musica è una fonte di energia e, nel ripercorrere gli anni migliori, fa volare alto le effervescenti mani delle centinaia di persone accorse per applaudirlo, con brani musicali tratti da vari album e non poteva non farlo ponendosi al pubblico con brani tratti dal fortunato album School Days con la partecipazione, tra gli altri, dei batteristi Steve Gadd e Billy Cobham e del chitarrista John McLaughlin. Ripercorre la sua carriera donando sprazzi di luce nel buio con la sua band di giovani talentuosissimi, fingendo di essere ancora padrone assoluto del suo gruppo funky di George Duke per poi tornare a miti, suoi compagni di sempre, quali Coleman, Victor Wooten e Marcus Miller.
Poi si alza in piedi, dopo sedutosi per abbracciare il suo inseparabile contrabasso, e sfodera pezzi di pura “follia” tratti dal suo intramontabile album dal titolo “Thunder”. Un’ovazione si eleva al cielo e il meritevole inchino del pubblico verso un magico interprete è, non un dovere, ma godimento per trarne felicità. Se non è questa la strada giusta per fare dell’Eddie Lang Jazz un festival da amare, abbiamo sbagliato bivio. Non basterà tornare indietro per riconoscere la forza di Eddie il Molisano.
Occorrerà tracciarne un’altra di strada che, per fortuna, non sarà mai la stessa. Eddie ci mette sicuramente del suo, ne son tutti certi, ma di sicuro dopo trentatré anni, la maturità è un indice, la felicità una costante.
Maurizio Varriano