La paura di non riuscire a dominare il Mondo, “Casa “dell’essere umano, ci porta sin da sempre a cercar di ammansire le forze della natura, con la consapevolezza che ciò è praticamente impossibile se non con la fantasia, con l’uso di riti che da sempre e sino ad oggi conservano il fascino di una consapevole inferiorità umana nei confronti di chi ci ospita nel passaggio dalla vita alla morte.
Nascondersi con travestimenti più o meno animaleschi: orsi, cervi, capre; l’uso delle mantelle, delle pellicce; porsi al collo e non solo, campanacci, sonagli di ogni genere; con la credulità di sovvertire il cammino lento e inesorabile di un Mondo che gira, mai potrà fermarsi, se non al cospetto della fantasia, dell’immaginaria forza dell’uomo.
Ed è subito scena, suggestione, sogno destato dalla mistificazione della verità sino a diventar anello tra il passato ed il presente e render indissolubile l’uomo dalla tradizione più vera, dal significato della vita terrena in conflitto con la vita del Mondo che ci circonda, e che ci rende esseri inferiori dipendenti dalla natura e da chi di essa ne è l’assoluto Padrone: il Tempo!
Per questo e per sfatare miti e logiche, ci si maschera, ci si rende sembianti a forze che favoriscono il benessere della comunità nella speranza di immedesimarsi in forze ed energie dal potere del profitto per l’essere umano. Si combatte il malessere per ricondurre tutto a quel patto con il Mondo che genera la vita, e che della stessa ne è padrone.
Le maschere ed i riti prendono il sopravvento e si rivivono ancestrali concetti e manifestazioni. Più o meno antiche, il Molise ha nella maschera rituale dell’Uomo Cervo, o meglio de “Gl’Cierv”, uno dei riti più suggestivi, più “veri “che da tempo immemore, si ripete l’ultima domenica di carnevale a Castel al Volturno.
Il piccolo borgo Molisano, ammantato dalla cornice delle Mainarde, diventa palcoscenico di una pantomima che ha del fiabesco, e nello stesso momento del tragico vissuto di un popolo ameno alle profondità della civiltà “evoluta”.
La morte per rigenerare vita, l’eterno contrasto dell’essere umano con sé stesso, l’eterna paura per una natura che vince sempre sul resto del mondo, si confrontano e soccombono alla cruenta essenza della natura che costringe l’essere umano ad esserne succube.
Le essenze di un rito dalla magia oscura, penetrante, spesso portatrici di brividi e timori di non sopportar la morte, se non per la sola forza rigeneratrice, compensano le tenebre e rendono l’infelicità sopportabile.
Il Cervo, il Martino, il Cacciatore, la Cerva, le Janare, il Maone, i personaggi che animano le scene tra gemiti, urla, rumori e tanta voglia di coinvolgimento. Ci si estranea dal Mondo esterno che per qualche attimo diventa buio, senza un perché, senza amore. Il Cervo, “animale feroce”, personaggio chiave della rappresentazione, coperto di pelli di capra, dalla pelle colorata di nero, dalle corna enormi, si contorce, corre, salta, si fa largo con la forza del rumoreggiar dei campanacci, si pone senza anima e dal cuore duro come una roccia.
Combatte con Martino, personaggio quasi candido, vestito da pulcinella con ai piedi le ciocie, calzature dei pastori dell’epoca. Simboleggiando il bene sconfiggerà il male servendosi di un bastone ed una corda, catturando il Cervo e la Cerva.
Nel porre facoltà al cacciatore di uccidere entrambi gli animali è consono però, con un’alitata di vento, di condizionare nuova vita e rendere felicità e tranquillità alla comunità. Il tutto nell’inquietante corografia rappresentata dalle streghe, le cosiddette Janare.
Orribili fuori, bellissime dentro, dai lungi capelli, si mostrano urlanti nell’eseguire il loro rito attorno ad un falò. Annunciate dal Maone, altro elemento orribile, cadenzano la loro tribale esibizione al suono insistente e inquietante di tamburi. Non è semplice donar la vita se non estirpata al male.
L’animale sacro, il rinnovo del ciclo ed il risveglio, con l’assecondar delle fertilità, della longevità, della luce, della prudenza e della spiritualità, il Cervo lo si considera ambivalente: satanico ed anti demoniaco; solare e plutonico; vita e morte.
Così come del resto è l’uomo; razionale nell’irrazionalità, vivo nel contesto mortale di un Mondo non più a passo con l’ideologia ferma, morto in un mondo che gira troppo in fretta per poter prender la strada della ragione. Ragione senza essere più ragionevoli con gli altri e con sé stessi.
Ci si nasconde, ci si immedesima in mondi paralleli servendosi di esseri a noi vicini ma fuori dalla logica vitale strettamente connessa alla ragione dell’uomo.
Il Cervo, nel caso di specie, animale quanto tale, libero ma estranei alle regole dell’uomo, protagonista dell’ambiente esterno ma sempre relegato ad essere animale e non pensante, è simbolo a tempo in ordine di luogo, di spazio. Le corna come alberi della vita. Queste cadono e rinascono senza un perché plausibile ma inopinabilmente ricompongono cicli di vita che ispirati a spiriti sovraumani trasformano il male in bene e magra in fecondità.
Non a caso l’uomo cerca sempre di nascondersi e trovar posti dove la natura sia più aggraziante, dove essa coccola e non sopprime, dove la vita scorre come un fiume in quiete, e non arringa voracità e flutti. La maschera è così la metafora di noi stessi che, nel porsi alla vita esterna nella propria dimensione umana, necessita di un cambio continuo, di una rigenerazione strumentale che nasconde debolezze, scomode verità e grandi paure, cause di fallimenti e di egocentrismi generatrici di solitudine e di rudezza di rapporti.
L’essere considerati simili non corrisponde a chi della maschera ne fa uso costante con espressioni sempre diverse, sempre ambigue, sempre al di sopra di ogni verità. Oggi ci mascheriamo con sorrisi, false retrospettive buoniste. La vita vince sempre ma l’uomo è lì, come da sempre, a distruggerla.
Se tornassimo consapevoli che il male viene dall’essere umano, dopo aver vissuto il rito dell’uomo cervo e gettato la maschera al fuoco, potremmo riconquistare l’essere uomini e, nell’esserlo, porsi al cospetto del mondo con grazia e sensibilità per generare mondi migliori. Anche il 2024 passerà e l’attesa sarà tutta per l’edizione 2025. La paura di non riuscire a dominare il Mondo, “Casa “dell’essere umano, ci porta sin da sempre a cercar di ammansire le forze della natura, con la consapevolezza che ciò è praticamente impossibile se non con la fantasia, con l’uso di riti che da sempre e sino ad oggi conservano il fascino di una consapevole inferiorità umana nei confronti di chi ci ospita nel passaggio dalla vita alla morte. Nascondersi con travestimenti più o meno animaleschi: orsi, cervi, capre; l’uso delle mantelle, delle pellicce; porsi al collo e non solo, campanacci, sonagli di ogni genere; con la credulità di sovvertire il cammino lento e inesorabile di un Mondo che gira, mai potrà fermarsi, se non al cospetto della fantasia, dell’immaginaria forza dell’uomo.
Ed è subito scena, suggestione, sogno destato dalla mistificazione della verità sino a diventar anello tra il passato ed il presente e render indissolubile l’uomo dalla tradizione più vera, dal significato della vita terrena in conflitto con la vita del Mondo che ci circonda, e che ci rende esseri inferiori dipendenti dalla natura e da chi di essa ne è l’assoluto Padrone: il Tempo! Per questo e per sfatare miti e logiche, ci si maschera, ci si rende sembianti a forze che favoriscono il benessere della comunità nella speranza di immedesimarsi in forze ed energie dal potere del profitto per l’essere umano. Si combatte il malessere per ricondurre tutto a quel patto con il Mondo che genera la vita, e che della stessa ne è padrone.
Le maschere ed i riti prendono il sopravvento e si rivivono ancestrali concetti e manifestazioni. Più o meno antiche, il Molise ha nella maschera rituale dell’Uomo Cervo, o meglio de “Gl’Cierv”, uno dei riti più suggestivi, più “veri “che da tempo immemore, si ripete l’ultima domenica di carnevale a Castel al Volturno.
Il piccolo borgo Molisano, ammantato dalla cornice delle Mainarde, diventa palcoscenico di una pantomima che ha del fiabesco, e nello stesso momento del tragico vissuto di un popolo ameno alle profondità della civiltà “evoluta”. La morte per rigenerare vita, l’eterno contrasto dell’essere umano con sé stesso, l’eterna paura per una natura che vince sempre sul resto del mondo, si confrontano e soccombono alla cruenta essenza della natura che costringe l’essere umano ad esserne succube. Le essenze di un rito dalla magia oscura, penetrante, spesso portatrici di brividi e timori di non sopportar la morte, se non per la sola forza rigeneratrice, compensano le tenebre e rendono l’infelicità sopportabile.
Il Cervo, il Martino, il Cacciatore, la Cerva, le Janare, il Maone, i personaggi che animano le scene tra gemiti, urla, rumori e tanta voglia di coinvolgimento. Ci si estranea dal Mondo esterno che per qualche attimo diventa buio, senza un perché, senza amore. Il Cervo, “animale feroce”, personaggio chiave della rappresentazione, coperto di pelli di capra, dalla pelle colorata di nero, dalle corna enormi, si contorce, corre, salta, si fa largo con la forza del rumoreggiar dei campanacci, si pone senza anima e dal cuore duro come una roccia. Combatte con Martino, personaggio quasi candido, vestito da pulcinella con ai piedi le ciocie, calzature dei pastori dell’epoca. Simboleggiando il bene sconfiggerà il male servendosi di un bastone ed una corda, catturando il Cervo e la Cerva. Nel porre facoltà al cacciatore di uccidere entrambi gli animali è consono però, con un’alitata di vento, di condizionare nuova vita e rendere felicità e tranquillità alla comunità. Il tutto nell’inquietante corografia rappresentata dalle streghe, le cosiddette Janare.
Orribili fuori, bellissime dentro, dai lungi capelli, si mostrano urlanti nell’eseguire il loro rito attorno ad un falò. Annunciate dal Maone, altro elemento orribile, cadenzano la loro tribale esibizione al suono insistente e inquietante di tamburi. Non è semplice donar la vita se non estirpata al male. L’animale sacro, il rinnovo del ciclo ed il risveglio, con l’assecondar delle fertilità, della longevità, della luce, della prudenza e della spiritualità, il Cervo lo si considera ambivalente: satanico ed anti demoniaco; solare e plutonico; vita e morte.
Così come del resto è l’uomo; razionale nell’irrazionalità, vivo nel contesto mortale di un Mondo non più a passo con l’ideologia ferma, morto in un mondo che gira troppo in fretta per poter prender la strada della ragione. Ragione senza essere più ragionevoli con gli altri e con sé stessi.
Ci si nasconde, ci si immedesima in mondi paralleli servendosi di esseri a noi vicini ma fuori dalla logica vitale strettamente connessa alla ragione dell’uomo.
Il Cervo, nel caso di specie, animale quanto tale, libero ma estranei alle regole dell’uomo, protagonista dell’ambiente esterno ma sempre relegato ad essere animale e non pensante, è simbolo a tempo in ordine di luogo, di spazio. Le corna come alberi della vita. Queste cadono e rinascono senza un perché plausibile ma inopinabilmente ricompongono cicli di vita che ispirati a spiriti sovraumani trasformano il male in bene e magra in fecondità.
Non a caso l’uomo cerca sempre di nascondersi e trovar posti dove la natura sia più aggraziante, dove essa coccola e non sopprime, dove la vita scorre come un fiume in quiete, e non arringa voracità e flutti.
La maschera è così la metafora di noi stessi che, nel porsi alla vita esterna nella propria dimensione umana, necessita di un cambio continuo, di una rigenerazione strumentale che nasconde debolezze, scomode verità e grandi paure, cause di fallimenti e di egocentrismi generatrici di solitudine e di rudezza di rapporti.
L’essere considerati simili non corrisponde a chi della maschera ne fa uso costante con espressioni sempre diverse, sempre ambigue, sempre al di sopra di ogni verità. Oggi ci mascheriamo con sorrisi, false retrospettive buoniste. La vita vince sempre ma l’uomo è lì, come da sempre, a distruggerla.
Se tornassimo consapevoli che il male viene dall’essere umano, dopo aver vissuto il rito dell’uomo cervo e gettato la maschera al fuoco, potremmo riconquistare l’essere uomini e, nell’esserlo, porsi al cospetto del mondo con grazia e sensibilità per generare mondi migliori. Anche il 2024 passerà e l’attesa sarà tutta per l’edizione 2025.
Ph Pino Manocchio
Maurizio Varriano