#parolaviva
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
#vivilaparola
Camminiamo per le strade di una terra che è dura nutrice, eppure ci alimenta e ci sostenta: con il sudore della fronte e il lavoro delle mani ci procuriamo da mangiare e riconquistiamo il diritto inalienabile. Ciò che a molti, troppi, viene negato. I beni del creato sono per tutti, ma ancora pochi sono coloro che se ne avvantaggiano: c’è da star bene per ognuno, ma qualcuno ha la pancia piena, gli altri vuota. Quanti corpi si muovono in cerca di pane, piegati, sfruttati e mal pagati, costretti ad accontentarsi delle briciole: mentre altri, come randagi, vanno tra paesi e città, con la frenesia del guadagno, in preda ad un profitto dal volto avido e privo di umanità che uccide l’anima.
L’uomo è ciò che mangia, ha detto un giorno un uomo saggio, se mangia pane di sopraffazione e ingiustizie, diventa tale. Al contrario accade, se si nutre di giustizia, pace, amore, libertà, perdono. L’esistenza che si ciba del pane dell’onestà e della fraternità, ha un sapore che non ha prezzo: la disonestà puzza. La verità è che siamo continuamente alla ricerca di un cibo che possa saziare la fame della vita tutta intera: il pane di cui abbiamo bisogno non sta nell’accumulare, bensì nel condividere ciò che a nostra volta abbiamo ricevuto, la nostra stessa fragilità, quella che messa a disposizione degli altri ci fa diventare essere umani, di cui qualcuno sin dall’origine ha detto bene.
Il Vangelo di questa domenica ci presenta Gesù nell’ultima cena che con parole incomprensibili, benedice il pane e il vino: non sta dicendo una magia, sta parlando di sé, dei segni del suo corpo e del suo sangue, dati come cibo. Non è antropofagia, un macabro rito tribale, ma l’apice di un messaggio rivoluzionario di Colui che, non detta dall’alto del suo scranno le ricette per guarire il mondo, ma si fa cibo per la salvezza del mondo. Si tratta di un capovolgimento che richiede un cambio anche del nostro modo di pensare: è facendo dono di noi agli altri che iniziano processi salvifici. Dio non è un Signore sprezzante, ma pane buono, spezzato, donato, e vino versato per molti.
Quale grande invenzione poteva mai partorire una mente umana? Nessuna. Solo la creatività divina poteva escogitare un mistero così grande: un Dio che sceglie di stare dentro la storia, fino a farsi seme, grano, farina, lievito, cibo, nutrimento. È la logica del Dio-Amore. Attraverso gli elementi più semplici, più umili e fragili del creato, si afferma il movimento mirabile dell’amore che si fa corpo e crea il linguaggio della non-conformità: ossia essere vivi realmente e non sottrarsi al tempo-storia, bensì a diventare pane buono nel disordine del mondo. Una presenza che è un sottrarsi, quasi fino a dissolversi: divina ribellione.
Il Cristianesimo è credere in un Dio che si fa “piccolo”, anzi “piccolissimo”: quale salto di una creatività di un fuori tempo che cade nel tempo, e assume le “forme antiche e sempre nuove” della “grazia” dalla lunga durata che, trasforma dall’interno, con la forza gentile dell’amore, il corso della storia.
#farsiparola
Chi ha fatto della sua vita un dono per gli altri sull’esempio di Gesù Cristo è stata Dorothy Day: fondatrice del movimento Catholic Worker (Lavoratori Cattolici), nacque a Brooklyn (New York) l’8 novembre 1897. Sopravvissuta al terremoto di San Francisco del 1906, la sua famiglia si trasferì in un umile appartamento nella parte più povera di Chicago perché il papà si trovò senza lavoro: un’esperienza che segnò per sempre la giovane Dorothy.
Vide violenza, ingiustizie, scioperi, e come l’America trattava, duramente, gli emarginati. Fu allora che capì quel sentimento di vergogna che provano le persone quando falliscono negli sforzi vani. Da allora in lei scattò qualcosa di particolare che la spinse a stare sempre dalla parte dei più deboli. Prima di arrivare alla conversione però ne ha fatte davvero di tutti i colori. Figlia di un giornalista sportivo, è stato scritto di lei: ribelle, anticonformista, militante comunista, femminista, pacifista, anarchica, scrittrice, infermiera, ed ha assaggiato anche le carceri per una manifestazione non autorizzata davanti alla Casa Bianca.
La sua vita è stata ricca di molte esperienze. Proprio durante la detenzione si avvicina per la prima volta alla Bibbia, che legge tutta d’un fiato, restandone profondamente turbata: di origini protestante, ma non praticante, si accorge che Dio lentamente comincia a farsi strada nella sua esistenza. Contribuirono anche gli esempi di amiche cattoliche, di cui ammira la fedeltà alla preghiera giornaliera e alla messa festiva, al punto da seguirle qualche volta in Chiesa e ritrovarsi inginocchiata accanto a loro, pur non sapendo pregare.
Nella Chiesa cattolica scoprì “la Chiesa degli immigrati, la chiesa dei poveri”: in altre parole la visione di società che lei aveva da sempre sognato. Nel 1922, lavorando come reporter, le fu chiaro che “venerare, adorare, rendere grazie, supplicare … erano gli atti più nobili di cui fossimo capaci in questa vita”. Diede così vita al “Movimento del lavoratori Cattolici”, per i primi sei mesi fu soltanto un giornale da cui divulgare i valori cattolici, ma come sopraggiunse l’inverno, la gente senza casa cominciò a bussare alla porta e così cominciò ad aprire delle case per accogliere coloro che erano senza casa.
Mise in pratica le parole di Gesù: “Ero uno sconosciuto e mi avete ospitato”. In ogni casa dedicò una stanza per Gesù Cristo, presente nell’Eucaristia: questa era la sua forza. L’appartamento della Day fu il seme di molte case di ospitalità che sarebbero venute ad aprire le loro porte ai più poveri. Oggi le “case famiglia Dorothy” sono più di 300, con migliaia di soci negli Stati Uniti e nel Messico settentrionale: in esse si accolgono i clandestini e i rifiutati dalla società, perché “non degni” di aiuto. Una volta che sono stati accolti diventano membri della famiglia Dorothy. La famiglia di Gesù.
Paolo Greco