#parolaviva
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
#vivilaparola
La domanda più comune e a seconda della risposta che diamo ci procura il riconoscimento nell’attuale società è: “che lavoro fai?”, “di cosa ti occupi?”, “quale incarico svolgi”. Quanto più la professione è prestigiosa, di successo e remunerativa, tanto più siamo apprezzati. Le madri e i padri coltivano l’intimo desiderio, oltre a mettere in atto tutti gli sforzi necessari pur di vedere le figlie e i figli occupare un posto importante nel mondo. Rispettato e ben pagato. Spesso però questi ultimi, si ritrovano ad essere l’oggetto di attese mai realizzate dai primi, che finalmente vedono il riscatto, tanto sperato, realizzarsi. Triste è chi pensa di essere felice accontentando gli altri. La vita è unica così come il desiderio che la abita, non ci sono fotocopie e tantomeno si possono trapiantare progetti, plagiare aspirazioni, imporre una vocazione: sarebbe come violentare l’originalità di ciascuno, ipotecarie il talento, deturpare il sogno antico.
Ogni vita è vocazione: non ci sono deleghe o felicità per conto terzi. Per questo sentiamo la necessità di ricercare, in prima persona, il nostro posto nel mondo: l’interrogativo che ci faccio qui, può trovare una soluzione nel “per chi?”. Si può vivere senza la risposta al “per che?”, mentre è molto difficile vivere senza trovare la risposta giusta al “per chi vivo?”. Il segreto sta nella relazione con l’altro e non nel circolo auto-riferito del proprio “ego”: la realizzazione dell’esistenza infatti si compie soltanto nel dono che facciamo di noi. Nell’amore per l’altro.
Il Vangelo di questa domenica racconta di Gesù che invia i discepoli nel mondo ad annunciare la buona notizia: non consegna grandi mezzi per il compito che affida, ma invita a farsi pellegrini per le strade polverose della storia. Si tratta di una pagina “manifesto” della missione della Chiesa: del servizio gratuito che il cristiano è chiamato a compiere.
Precisamente dello stile nuovo che bisogna fare proprio: la fraternità, la sobrietà, la semplicità, e la fiducia nella presenza di un Dio che si avvicina a corpi e anime bisognose di guarigione. Più che dalle parole o dai grandi apparati l’annuncio avviene per la testimonianza della vita: è l’amore che bisogna lasciare trasparire e non se stessi. Perché è l’amore che guarisce. E l’amore dovrà essere lo stile dei discepoli: la condivisione, la comunità e la comunione. Non ci sono corridori solitari. Come ha fatto il maestro devono fare anche loro: accarezzare le ferite umane, farsi prossimi ai sofferenti, chinarsi sui bisogni dell’altro.
L’intento è la salvezza di ogni persona e non fare proseliti: questo non avviene per uno sforzo umano, per strategie pastorali o altro, ma per la provvidente opera di Dio. Anche nei fallimenti della missione non bisogna disperare, a chi non accoglie resta soltanto la polvere dei sandali, come segno di un bene rifiutato. Il missionario va oltre verso altri luoghi e persone aperti a lasciarsi incontrare dall’amore di Dio. È attraverso l’umiltà che si comunica la bellezza del Vangelo e non l’arroganza: la garanzia della presenza di Dio non sono le cose, il denaro, il potere ma la fede in Lui. La missione è chiara: si tratta di portare avanti la vita.
#farsiparola
Chi ha risposto alla chiamata di Gesù ed ha testimoniato il Vangelo per le strade della città è Fratel Ettore Boschini: nacque il 25 marzo 1928 nella piccola frazione di Belvedere di Roverbella (Mantova), in una famiglia di agricoltori.
A causa di una grave carestia, il padre fu obbligato a lasciare la tenuta agricola, per trasferire la famiglia nella contrada Malavicina, dove ricominciò tutto daccapo. Ettore trascorse la fanciullezza così in ristrettezze economiche, tanto che giunto all’adolescenza lasciò anche la scuola, per andare a lavorare nei campi e nelle stalle. Il duro lavoro gli procurò violenti mal di schiena, che lo accompagneranno per tutta la vita.
Dopo la guerra improvvisamente si convertí a Gesù, durante un pellegrinaggio in un santuario mariano, accadde l’incontro decisivo della vita. A 24 anni, la vocazione religiosa che avvertiva in sé, si fece insistente, e scelse di entrare nell’Ordine dei Camilliani, venendo accolto il 6 gennaio 1952 e pronunciando i voti temporanei come Fratello, il 2 ottobre del 1953.
Fratel Ettore cominciò da prima s Venezia, dove rimase come fratello operoso e benvoluto, per un circa vent’anni e poi a Milano, alla clinica camilliana “San Pio X”, dove, riuscì a conseguire la licenza media e il diploma d’infermiere professionale. Fu qui che scoprì le miserie che affliggono la vita metropolitana e iniziò ad aiutare i più bisognosi, appoggiandosi dapprima alla clinica “San Camillo”, e poi dal 1979, con il permesso dei suoi Superiori, in Via Sammartini. In breve tempo divenne un punto di riferimento per i diseredati, barboni, extracomunitari, senza tetto, persone sole senza affetti. Così istituì dei “Rifugi”, dei luoghi ospitali organizzati per soccorrere al meglio questi poveri invisibili.
Dapprima da solo, poi con l’aiuto di volontari. Chiunque trovò riparo, senza distinzione di sesso, razza o religione. Con amore paziente e generoso offrì cibo, servizi igienici, un letto la pulizia personale, vestiario e biancheria pulita. Soprattutto attenzione e ascolto fraterno. Realizzò tanti centri di accoglienza, con l’aiuto della Provvidenza e dei tanti benefattori e volontari, che affascinati dalla singolare testimonianza del Vangelo, cercavano di sostenerlo ed aiutarlo. Non mancarono le incomprensioni ma tutto affrontò con umiltà e tenacia.
Con la sua veste talare nera, dalla vistosa croce rossa sul petto, consumata dal lavoro, percorreva Milano, alla ricerca dei bisognosi, a cui porgeva la mano del suo aiuto per sollevarli dall’isolamento. A tutti regalava la corona del rosario, da devoto qualera di Maria.
Fratel Ettore, morì il 20 agosto 2004 a 76 anni, nella clinica camilliana a Milano. Durante i funerali, il Superiore Generale dei Camilliani, padre Frank Monks, sintetizzò la vita di Fratel Ettore: “Lui, come diceva san Camillo, aveva capito bene che i poveri non hanno bisogno di una predica sull’amore di Dio, ma piuttosto sperimentare questo amore per mezzo della nostra assistenza, fatta con “più cuore nelle mani”.
Paolo Greco