#parolaviva
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?».
Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere».
C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
#vivilaparola
La vita cresce e si muove, attraversa passaggi, compie giravolte, ricerca una voce autorevole che sappia aprirgli una finestra sul vero: non si accontenta delle parole vuote, artefatte, di restare prigioniera del nulla. Ma pare che non ci sia più posto per i profeti nel nostro incerto tempo presente, segnato dai traumi vissuti. In ultimo dalla pandemia, la paura dell’ignoto domani, la precarietà di una economia inquinata dalla cupidigia e la minaccia dell’autodistruzione ecologica che pesa come una spada di Damocle sul collo del pianeta. Nessun profeta, nemmeno quel Gesù che i cristiani credono essere il Figlio di Dio, sembra abbastanza grande per salvarci dalla rovina: per questo ognuno si organizza da sé costruendo zattere di salvataggio, o navicelle spaziali a propria misura.
Nonostante si moltiplichi il prodotto profetico nei supermercati del divino, l’ansia dei consumatori non è appagata bensì allargata: eppure siamo continuamente affascinati, maledettamente attratti, da un’ideale di mondo, un’utopia che, presto rimuoviamo per non restare delusi e consegniamo agli algoritmi, alle previsioni scientifiche le sorti del futuro. Tuttavia anche la scienza fallisce. Per chi non si è arreso, aguzza l’occhio sui passi di un mondo nuovo, e ode la flebile parola di chi possa illuminare l’avvenire, guidare nello smarrimento, aprire uno squarcio sulla fine, condurre ad una superiore conoscenza e alla direzione giusta, sulla strada della libertà.
La profezia rivela l’equilibrio tra la dura realtà in cui siamo e il grande mistero che ci avvolge: non è arte magica, ma l’esperienza dell’invisibile. Quando troviamo qualcuno che apre il cielo sopra di noi e accende il fuoco in noi, ci dimentichiamo di tutto, facciamo i salti mortali per vederlo, toccarlo e ascoltarlo: perdiamo il sonno, ci scordiamo anche di mangiare.
Il Vangelo di questa domenica ci presenta il giovane Nazareno che attraverso un gesto prodigioso, sfama folle di genti che da giorni gli stava dietro per ascoltarlo, finanche a non mangiare pur di seguirlo. Una moltitudine di persone, uomini donne, anziani e bambini, lo seguiva, perché parlava la loro lingua, lo capivano: quell’uomo aveva intercettato le loro attese, le angosce e i desideri profondi. Si tratta di ciò che, dai biblisti viene descritto come il miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”: è un segno che Gesù prepara e al contempo consegna ai suoi e a tutti noi. Il pane è Lui stesso che dona la vita, il proprio corpo, spezzato per saziare il morso più grave della fame d’amore, di perdono, di giustizia. Infine, la fame di Dio.
La fame del popolo in realtà manifesta un’altra fame: quella dell’eterna domanda di speranza. Gesù prima provoca i suoi con una domanda – “dove potremo comprare il pane…” – pur sapendo che non era possibile trovare il pane per tutti in quella terra e a quell’ora: in questo modo spinge a trovare un’altra soluzione. La creatività si ingegna e attiva, ci sono due pani e pochi pesci: bastano quando la vita si mette al servizio dell’amore.
C’è pane per tutti, ma pochi ne hanno più degli altri che, soffrono per la mancanza dell’equa distribuzione dei beni: affinché tutti abbiano da mangiare, bisogna moltiplicare, ossia dividere, condividere, spezzare con l’altro e per l’altro quel poco che c’è a disposizione. L’importante è mettere a disposizione quel poco che abbiamo, senza trattenere per sé, superare l’ingordigia aprendoci all’altro che ci sta accanto. Cosa sarebbe se, di questo insegnamento facessimo una pratica sociale, politica e religiosa? Sarebbe rivoluzione! Quella bella!
#farsiparola
Chi ha scelto di fare della sua vita un dono sull’esempio di Gesù pane spezzato per i fratelli è stata Luisa de Marillac (1591-1660): è una santa poco conosciuta, ma ha dato il contributo attraverso opere che si possono considerare come i servizi socio-sanitari del suo tempo. Luisa è la pioniera di ciò che oggi sono considerate tutte le attività sociali. Luisa è nata a Parigi, una donna di cultura superiore per la sua epoca, non sappiamo molto della sua famiglia, si sa con certezza che era figlia naturale d’un membro della famiglia dei Marillac una delle più celebri alla corte del Re di Francia.
Fu affidata dall’infanzia al monastero reale delle Domenicane di Poissy per la sua educazione. Nel 1613 il suo tutore, il futuro cancelliere di Francia Michel de Marillac, decise di darla in sposa al segretario della Regina Maria de’ Medici, Antonio Legras. Ebbero un figlio, di salute delicata, che per molti anni fu la preoccupazione di sua madre fino a quando si sposò felicemente. Nel 1625 Luisa rimase vedova e cominciò a dedicarsi al servizio dei poveri nella “Compagnia delle Dame della Carità” sotto la guida di San Vincenzo.
Un prete che ha fatto dell’esercizio della carità il senso della sua vita. Morì a Parigi, assistita dalle suore che avevano ricevuto da lei una guida materna e feconda. Durante la sua esistenza terrena, Luisa ha formato il personale necessario al funzionamento delle opere socio-sanitarie prima ispezionando e consigliando i vari gruppi di “Carità” sorti per iniziativa di Vincenzo de’ Paoli, sia nelle campagne che nelle città della Francia; in seguito, nel 1633, organizzando quel gruppo speciale denominato “Compagnia delle Figlie della Carità”, dedito a tempo pieno al servizio di Cristo nei poveri cioè al sollievo del prossimo specialmente delle persone sprovviste di tutto. Le attività iniziali furono la cura dei malati a domicilio e l’istruzione delle bambine povere.
Si aggiunsero poi l’assistenza dei malati negli ospedali e la cura di categorie di persone particolarmente emarginate come malati di mente, mendicanti, senza fissa dimora, bambini abbandonati, i condannati a remare nelle galere reali (galeotti), i carcerati, i soldati feriti da curare nei pressi dei campi di battaglia (Sédan, Châlons, Calais..).
Il motto scelto per esprimere lo stile della nuova famiglia fu “Charitas Christi urget nos” ed è ancora oggi ad esso che si ispirano nelle loro scelte le attuali Figlie della Carità.
Paolo Greco