#parolaviva
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”.
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.
#vivilaparola
Quando nasce un bambino i genitori partoriscono un sogno, tanti progetti si pensano per il nuovo arrivato: grandi aspettative si innescano, insieme all’intima percezione che quella creatura è nata per fare qualcosa di grande. Contrariamente, nell’età della maturazione e l’affermazione, si incontrano difficoltà che tendono a ridurre quei desideri: con le speranze deluse si rimodula anche il sogno, pur se accettarlo diventa complicato.
Ciascuno è un pezzo unico, un originale, che è chiamato a compiere il suo percorso personale e scoprire quale posto occupare nel mondo, ed i talenti da mettere in circolo. Nel cammino della vita non si vince senza le cadute e soprattutto senza trarre insegnamento dalle sconfitte: anzi sono proprio loro a farci crescere come persone migliori. L’io matura quando decide di partire e attraversare il rischio del mare aperto, il luogo dove la vita ex-esiste, viene fuori ed esprime pienamente la sua unicità e potenzialità.
Tanti ci vorrebbero di successo, invincibili e perfetti, senza smagliature, non disposti ad accettare anche i nostri percorsi accidentati, gli insuccessi e fragilità: infatti tutti vogliono salire sul carro dei vincenti, nessuno su quello dei perdenti. Ci vuole umiltà e coraggio per camminare sulla strada della verità: la vita si scopre in tutta la sua profondità soltanto se disposti ad affrontare il chiaro-scuro delle sue contraddizioni.
Il Vangelo di questa domenica ci presenta il dramma dei discepoli: Gesù affonda il colpo, parla di ciò che gli accadrà, e manda in frantumi l’idea di un regno della logica troppo mondana: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Essi però non capivano queste parole, discutevano di tutt’altro lungo la strada: di chi doveva era il più grande. Molti avevano timore di interrogarlo, per non sentirsi dire ciò che temevano: il regno nuovo non segue l’unità di misura degli uomini che valutano l’esistenza dalla fame di potere e di comando, bensì l’unità di misura di Dio: il servo per amore di ogni uomo senza distinzione di razza, cultura, religione. Anche noi facciamo fatica ad accettare questo discorso, vorremmo un io a nostra misura, secondo le nostre categorie troppo umane, vessillo vittorioso, ma questo ci allontana dalla bellezza del vero Dio. Non capiamo con la testa e tantomeno con il cuore. Per noi che siamo abituati a giudicare la vita in base ai like e al consenso, diventa difficile comprendere un Dio che muore appeso ad una croce. Per aiutarci a capire questo però, Gesù ci invita a seguirlo per la via della piccolezza, e recuperare la semplicità del cuore: perché chi accoglie e abbraccia un bambino accoglie Dio.
#farsiparola
Chi ha accolto Dio nei piccoli è stato Michele Rua, primo successore di don Bosco alla guida dei Salesiani. Nato a Torino il 9 giugno 1837, nel popolare quartiere di Borgo Dora dove, nell’arsenale, il padre lavorava e in un alloggio della fabbrica abitava con la famiglia. Venuti a mancare il papà, la madre rimase sola con due figli, gli occhi di Michelino, così lo chiamavano affettuosamente, spesso si fermavano a guardare gli operai a lavoro davanti ai forni roventi in cui venivano fusi i pezzi d’artiglieria. Frequenta la terza elementare dai Fratelli delle Scuole Cristiane, tra i banchi di scuola incontra don Bosco che subito intuì, nel giovane, qualcosa di speciale. Porgendogli la mano, come era solito fare con tanti ragazzi, gli disse “Noi due faremo tutto a metà”. Quelle parole rimasero impresse nel cuore di Michele che da quel giorno lo prese come confessore. La terza era l’ultima classe obbligatoria e quando il “santo dei giovani” gli chiese cosa avrebbe fatto l’anno successivo, lui rispose che, essendo orfano, in fabbrica avevano promesso alla madre che gli avrebbero dato un lavoro. Per il sacerdote, anch’egli rimasto presto senza padre, convincere la donna a fargli proseguire gli studi non fu difficile e Michele entrò come convittore a Valdocco, già “popolato” da oltre cinquecento ragazzi. Era il 1853, un anno speciale perché si celebrava il 4° centenario del Miracolo Eucaristico.
Don Bosco aveva scritto per l’occasione un libretto e un giorno, mentre camminavano insieme per le strade di Torino, scherzando, predisse al giovane che, cinquanta anni dopo, l’avrebbe fatto ristampare. Intanto nacque nel suo cuore la vocazione sacerdotale e il 3 ottobre ricevette dal santo l’abito clericale ai Becchi di Castelnuovo. Il 26 gennaio 1854, don Bosco radunò nella sua camera quattro giovani compagni, dando vita, forse inconsapevolmente, alla congregazione salesiana. Il 25 marzo, nella stanza di don Bosco, Michele fece la sua “professione” semplice: era il primo salesiano.
Michele divenne il principale collaboratore del santo, nonostante la giovane età. Rua, facendo catechismo e insegnando le elementari nozioni scolastiche, conobbe infinite storie di miseria. L’oratorio fu frequentato anche da s. Leonardo Murialdo e dal B. Francesco Faà di Bruno. Nel novembre 1856, quando morì Margherita Occhiena, madre di don Bosco, Michele chiamò la sua ad accudire i giovani di Valdocco. Nel febbraio 1858 don Bosco scrisse le Regole della congregazione e il “fidato segretario” passò molte notti a copiare la sua pessima grafia. Insieme, le portarono a Roma, all’approvazione di Papa Pio IX, che, di proprio pugno, le corresse. Michele alla sera dovette ricopiarle mentre di giorno era l’ombra del fondatore, impegnato ad accompagnarlo negli incontri con varie personalità. L’anno successivo il papa ufficializzò la congregazione salesiana.
Il 28 luglio 1860 Michele Rua venne finalmente ordinato sacerdote. Sull’altare della prima messa c’erano i fiori bianchi donati dagli spazzacamini dell’oratorio san Luigi. Tre anni dopo fu mandato ad aprire la prima casa salesiana fuori Torino: un piccolo seminario a Mirabello Monferrato. Vi stette due anni e tornò in città mentre a Valdocco si costruiva la basilica di Maria Ausiliatrice. Lavorava senza soste e nel luglio 1868 sfiorò persino la morte a causa di una peritonite. Dato per moribondo dai medici, guarì, qualcuno disse per intercessione di Don Bosco. Nel 1884 la salute del fondatore ormai declinava e fu il papa stesso a suggerirgli di pensare ad un successore.
Don Rua il 7 novembre fu nominato, dal pontefice, vicario con diritto di successione. Nel gennaio del 1888, nella notte tra il 30 e il 31, alla presenza di molti sacerdoti, accompagnò la mano del santo, nel dare l’ultima benedizione. Rimase poi inginocchiato, davanti alla salma, per oltre due ore. Il beato Michele fu un missionario instancabile, fedele interprete del sistema educativo preventivo. Spesso gli saranno tornate in mente le parole che don Bosco gli disse quando era ancora un ragazzino: “avrai molto lavoro da fare”.
Paolo Greco