#parolaviva
In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
#vivilaparola
Un inquietudine, un sogno attraversa la vita dell’essere umano, un appello insondabile è il tratto di ogni corpo: non ci basta soltanto lavorare, mangiare, dormire, uscire il sabato sera, per poi ricominciare daccapo il lunedì. Come una ruota del luna park che gira sempre su sé stessa, nella ripetizione abitudinaria, di gesti, di giorni, mesi e anni che trascorrono sempre allo stesso modo, la vita non può essere solo questo. Non ci basta. Forse perciò abbiamo
continuamente di evasione. Drammatica quando tocca il fondo di una bottiglia di whisky oppure ricorre al consumo di stupefacenti. Avvertiamo la spinta a qualcosa che si trova al di là di tutto questo nostro mondo, dei vestiti che indossiamo e le scarpe che abbiamo ai piedi, del conto in banca: il segreto è oltre noi, o meglio a partire da noi per andare oltre di noi. Si tratta della sapienza vitale che feconda l’esistenza fino a farla fiorire: chi è riuscito in questa conquista non resta chiuso in sé stesso, non muore nel proprio vuoto egoismo, ma si apre alla profondità e all’ampiezza della vita, in quanto dono che per sua natura si fa dono. È la gioia che si espande e inonda l’esistenza, quando dal sé si passa all’altro, dall’io al noi: quella che scaturisce dall’amore con la “A” maiuscola e spalanca i sentieri dell’umanità alla risurrezione.
Il Vangelo di questa domenica ci costringe a fermarci sulla domanda di questa vita: le folle vanno da Giovanni, quelli che frequentano il tempio e quelli che ne stanno fuori, potremmo dire oggi, credenti e non credenti. Lo hanno ascoltato, le due parole hanno aperto uno squarcio nella vita di tanti che vivono disorientati: ritengono credibile quell’uomo del deserto che invita a ritornare a Dio. Gli pongono una domanda precisa e va dritto al cuore della vita: che cosa dobbiamo fare? Siamo confusi, agitati da mille preoccupazioni, distratti, non sappiamo a chi credere. Di chi dobbiamo fidarci. Abbiamo smarrito la speranza. Ma siamo alla ricerca di un’alba dentro l’imbrunire. Di un posto dove sentirci a casa da qualche parte. Tu che conosci la strada, parlaci, quale via dobbiamo percorrere? Da che parte dobbiamo andare?
Giovanni Battista risponde all’interrogativo con tre semplici parole che liberano il cuore da inutili orpelli e aprono una strada nuovo nelle vite appesantite da una cattiva relazione con l’altro e le cose: la prima parola invita a condividere qualcosa di proprio con chi è nel bisogno -“chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto”. La seconda parola esorta a non esigere nulla di più di quanto ci è stato fissato. Siate onesti. Non rubate. Dalla trasparenza passa la luce che illumina e riscalda la vita. La terza parola confermare approfondisce la seconda, non maltrattate e non estorcete niente a nessuno. Non è la forza dell’arroganza e della prepotenza che cambia il mondo, offendere, umiliare, far piangere, ferire, spillare soldi alle persone.
Bensì è essere giusti. Semplici cose da fare, ma così difficili per chi ha attaccato il cuore alle cose. Siamo chiamati anche noi a camminare nel deserto delle nostre miserie, attraversare le illusioni che ci sovrastano e liberarci da ciò che ci rende schiavi, affinché possiamo fare spazio a “sole di giustizia e di pace” che viene, Colui battezzerà in Spirito Santo e fuoco. È il Dio bambino più forte, perché non si impone e vince, ma è l’unico che parla al cuore, dona sé stesso per amore. Il Signore della vita che ha acceso il buio di tante vite, dato un senso a girovaghi senza meta, vagabondi, rendendole felici.
#farsiparola
Chi ha seguito la strada di Gesù è don Ernest Simoni (Troshani). Riporto questa testimonianza che ha dato qualche anno fa davanti a papa Francesco: “Sono un sacerdote di 84 anni. Nel dicembre del 1944 in Albania arrivò il partito comunista ateo, che aveva come principio l’eliminazione della fede e l’obbiettivo di eliminare il clero. Nella realizzazione di questo programma iniziarono subito gli arresti, le torture e le fucilazioni di centinaia di sacerdoti e laici, per sette anni di seguito, versando il sangue innocente di fedeli, alcuni dei quali, prima di essere fucilati, gridavano: «Viva Cristo Re».
Nel 1952 il governo comunista, con una mossa politica, voluta da Mosca (Stalin), cercò di riunire i sacerdoti che erano ancora vivi, per permettergli di esercitare liberamente la fede, a condizione che la Chiesa si staccasse da Papa e dal Vaticano. Questa intenzione del governo il clero non la accettò mai. Io continuai gli studi nel collegio dei francescani per dieci anni: dal 1938 al 1948. I nostri superiori furono fucilati dai comunisti, e per questo motivo fui costretto a concludere clandestinamente i miei studi di teologia. Dopo quattro anni fui preso nell’esercito, allo scopo di farmi sparire. Passai due anni in quel posto, anni che furono più terribili di una prigione. Ma il Signore mi salvò e il 7 aprile 1956 fui ordinato sacerdote. Il giorno dopo, domenica in Albis e festa della Divina misericordia, celebrai la prima messa. Per otto anni e mezzo ho svolto il mio ministero sacerdotale. Ma i comunisti decisero di togliermi di mezzo.
Perciò il 24 dicembre 1963, appena finii di celebrare la santa messa della vigilia di Natale nel villaggio di Barbullush, vicino Scutari, arrivarono quattro ufficiali della sicurezza e mi presentarono il decreto di arresto e di fucilazione. Mi misero le manette legando le braccia dietro la schiena e prendendomi a calci mi misero nella loro macchina. Dalla chiesa mi portarono nella stanza di isolamento dove mi lasciarono per tre mesi in una condizione disumana. Così legato mi portarono all’interrogatorio. Il capo mi disse: «Tu sarai impiccato come nemico perché hai detto al popolo che moriremo tutti per Cristo se è necessario».
Mi strinsero i ferri ai polsi così fortemente che si fermarono i battiti del cuore e quasi morivo. Volevano che io parlassi contro la Chiesa e la gerarchia della Chiesa. Io non accettai. Dalle torture caddi quasi morto. Al vedermi così, mi liberarono. Il Signore volle che continuassi a vivere. Tra le accuse c’era anche la celebrazione delle tre messe per l’anima del presidente americano John Kennedy ucciso un mese prima il mio arresto, Messe che io celebrai secondo le indicazioni di Paolo VI, date a tutti i sacerdoti del mondo. Io ero abbonato alla principale rivista russa «L’Union Sovietique» in lingua francese. Questo, intanto che l’Albania aveva rotto i rapporti con l’Unione sovietica. Come prova materiale dell’accusa presentarono al giudice la rivista nella quale si trovava la foto del presidente americano.
La Divina provvidenza ha voluto che la mia condanna a morte non venisse eseguita. Nella stanza di isolamento portarono un altro prigioniero, un mio caro amico, allo scopo di spiarmi. Egli incominciò a parlare contro il partito, ma io comunque gli rispondevo che Cristo ci ha insegnato ad amare i nemici e a perdonarli e che noi dobbiamo impegnarci per il bene del popolo. Queste mie parole arrivarono alle orecchie del dittatore, il quale dopo cinque giorni mi liberò dalla condanna a morte. Ma questa condanna fu sostituita da diciotto anni di prigione presso la miniera di Spaç. Dopo essere uscito dalla prigione, fui condannato nuovamente ai lavori forzati: per dieci anni —quindi fino alla caduta del regime — ho lavorato nei canali delle acque nere. Durante il periodo della prigionia, ho celebrato la messa in latino a memoria, così come ho confessato e distribuito la comunione di nascosto. Con la venuta della libertà religiosa il Signore mi ha aiutato a servire tanti villaggi e a riconciliare molte persone in vendetta con la croce di Cristo, allontanando l’odio e il diavolo dai cuori degli uomini”.
Paolo Greco