A sette anni dal terribile terremoto dell’Italia Centrale, una parte di essa ha completamente lasciato spazio ad una nuova ed irriconoscibile porzione di terra senza più connotati, senza più vita passata. Le lancette si fermarono inconsapevolmente alle 3,36 del 24 agosto 2016.
Essere credenti condizionò la bestemmia che lasciando spazio alla preghiera vide contare ben 300 morti. Un sisma infinito: ad oggi oltre 100mila scosse dopo il primo terremoto di magnitudo 6.0 che cancellò Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto.
Poi fu la volta di Norcia toccata di nuovo ad ottobre dalla più forte scossa registrata in Italia in 30 anni. Il racconto è da film dell’orrore che nasconde, tutt’oggi molti perché, molti drammi che non potranno mai essere cancellati. “Amatrice non c’è più”, furono le prime parole rotte dalla disperazione e dal pianto del primo cittadino, Sergio Pirozzi. Erano le prime luci dell’alba, ancora buio e già le tv e radio annunciavano il disastro. Lazio, Marche ed Umbria tremarono per ben 142 interminabili secondi.
Accumoli (Rieti), Amatrice (Rieti), Arquata del Tronto e la frazione di Pescara del Tronto (Ascoli Piceno) furono letteralmente spazzate via senza scampo e senza un minimo di riverenza per dei posti che della bellezza architettonica e armonia paesana, sino allora ne avean fatto vanto. Dopo meno di un’ora, alle 4.33, un’altra scossa di magnitudo 5.3 farà tremare Norcia, la cittadina di San Benedetto. “C’è gente sotto le macerie, al momento la cosa più importante è sgomberare le strade di accesso per far arrivare i mezzi di soccorso”, l’immediato appello del sindaco di Amatrice. Gli fece eco il sindaco di Accumuli, Stefano Petrucci ”Vedo crolli dappertutto, siamo inermi, non abbiamo mezzi, c’è gente sotto le macerie”.
La voce roca e piena di lacrime non favorì la luce e il baratro convogliò a portatore di morte. Una vera e propria devastazione che in pochi attimi mostrò al mondo la sua irriverente forza distruttiva, arridendo al passato glorioso e pieno di armoniosau passione alla cultura del bello. Interi borghi dell’Appennino ridotti a macerie.
Ai 300 morti si aggiunsero gli oltre 4000 sfollati. Per fortuna, se potessimo considerarla tale ma tale fu per le 238 persone messe in salvo. Fabio Curcio, l’allora capo della Protezione Civile, corse in un baleno ma si trovò difronte l’inverosimile tanto da poter solo proferire “ E’ Un ”terremoto severo”. Il terreno si inchinò per quasi 20 centimetri e i colori della Piana di Norcia persero per sempre la felicità di essere fonte di chiosata voglia di carezze e vento colorato di giallo, rosso e verde brillante.
La scia sismica andò avanti per giorni e non solo scosse di assestamento. Purtroppo il dramma continuò sino ad ottobre quando il 26 alle ore 19.10 un’altra scossa di magnitudo 5,4 costrinse Castelsantangelo sul Neva e poco dopo, alle ore 21,18 scossa di magnitudo 5,9, Ussita alla resa. Poi, come se non fosse già tanto, il 30 ottobre alle 7.40 un terremoto di magnitudo 6.5 metterà in ginocchio Norcia.
La scossa, la più forte registrata in Italia negli ultimi trent’anni, con danni incalcolabili ma fortunatamente senza altre vittime. Molti iniziarono a domandarsi il da farsi. Il vescovo Giovanni D’Ercole nel celebrare il funerale di ben 35 vittime in quel di Ascoli Piceno di pose anch’egli una domanda che molti ebbero a porli “Che si farà ora?”.
Iniziò così la sequenza delle benedizioni e dei funerali. Il 30 agosto Amatrice diede l’ultimo addio ai suoi concittadini. Il tempo fu inclemente ma forse la pioggia battente ebbe a significare il pianto della disperazione, della incapacità di essere destinatari di missive di vita dal colore della tranquillità, della passione, della felicità. Il vescovo di Rieti d’allora, Domenico Pompili, oggi a nuovo incarico, non resse alla desolata condizione di un’omelia dal sapore della beffa e pronunciò senza appello “ Il terremoto non uccide, uccidono le opere dell’uomo”.
Sciorinando i nomi delle vittime si commosse e ripose in Dio ogni speranza per un immediato futuro di ricostruzione, sia terreno che spirituale. Oggi qualcosa è cambiata. Una timida ripresa dell’intera area da i segni di una lenta ricostruzione. Il sindaco simbolo dello “Scarpone” della solidarietà è tornato ad allenare una squadra di calcio, sua vecchia passione, ha raggiunto lo scranno del Consiglio Regionale del Lazio per poi lasciarlo, ha subito onte indicibili, accuse dimostrate assurde e al limite della decenza, la popolazione man mano sta ritrovando una propria ma nuova dimensione, i territori colpiti ancora sono ad aspettare che passi la mano morta di chi ha promesso, di chi ha fatto finta di piangere, di chi ha pianto davvero, di chi le mani le ha usate per scavare con insuccesso, con successo, con la voracità di chi spera in un ritorno e di ritrovare la perduta felicità.
Saranno sogni bui ma la speranza è l’ultima a morire e finché la luce accende un briciolo di vita, speriamo che quel fatidico 24 agosto rimanga un ricordo e non abbia a tornare a irradiare di irriverenza il cielo azzurro di estati mai più le stesse. Il pianto non si cancella e con esso la voglia di tornare a sentire le campane svolazzare e segnare tempi migliori.
Nel ricordo è bello però considerare che quelle campane della rinascita sono molisane, della Fonderia Pontificia Marinelli e che nel tirar la corda all’unisono, il 23 agosto 2017 una di esse, proprio ad Amatrice, ebbe a suonare la musica del perdono e della ricostruita voglia di tornare ad essere protagonisti della rinascita, sia culturale che economica, che spirituale. La campana anche oggi canterà per ricordare i morti ma urlerà nuova vita, senza voltar le spalle alla provvidenza.
Maurizio Varriano