Gli alberi raccontano la storia dei luoghi. Bisogna entrare nel loro mondo in punta di piedi e in silenzio per coglierne la voce. Saper ascoltare.
L’inverno s’approssimava. Il tempo rallentava e la natura si mostrava attraverso un paesaggio che giorno dopo giorno mutava. A volte, strisce di verde ancora brillante sui prati e macchie di bianco ravvivavano l’aria; altre, tutto appariva come attraverso i vetri di una finestra, inumiditi dalla nebbia, come da una dimensione diversa, assonnata, confusa, desolata. Rallentare può essere fruttuoso, per guardarsi intorno. Riflettere.
Ero tornato nel bosco appena imbiancato dalla prima neve. Avevo respirato l’aria tra i cespugli d’agrifoglio, accarezzato le bacche rosse tanto numerose, che spiccavano tra il verde lucido delle foglie spinose e il candore della neve a terra, in un ambiente oramai nudo, disadorno, comunque grandioso, affascinante.
L’agrifoglio è la pianta legata alla raffigurazione del Natale; è di buon auspicio. E’ bello regalarne un rametto a chi ti sta a cuore. Ed ero lì, appunto. I tronchi grigi con le loro braccia al cielo, dominavano la scena. Il vento li muoveva. Sembrava mi venissero incontro, mi osservassero, che leggessero i miei pensieri mentre mi muovevo all’interno della faggeta. Non era il vento che mormorava. Erano loro che parlavano. La narrazione mi accompagnava e mi sentivo creatura del bosco. A volte la felicità (serenità), può essere un luogo se quel luogo te lo porti dentro.
Un ambiente identitario della storia e della civiltà della nostra comunità.
Tra questo bosco, il “nostro bosco”, e la “nostra gente” si è sviluppato nei secoli una rapporto speciale, appassionato. Una armonia uomo e natura. Lo abbiamo utilizzato, rispettato, difeso e a volte offeso; abbiamo lottato per averne il possesso.
Il Bosco della difesa di Primo Campo, riservato al pascolo di vacche, buoi, equini, precluso agli ovini, dove e stato praticato nel passato esclusivamente il taglio a capitozza, e mai al piede, per legna da ardere, veniva riconosciuto, con Regia sentenza nel 1587, di appartenenza della comunità pescolana. Tale sentenza scriveva la parola fine alla tormentata lite – caratterizzata da una lunga serie di soprusi, rappresaglie, ricorsi e opposizioni – per il possesso di quest’area tra Sulmo, l’antico municipio di Roma, che in epoca romana ne deteneva l’uso e che successivamente nel 1296 ne aveva ottenuto il riconoscimento da Carlo II d’Angiò, e Cansano e Pescocostanzo.
Queste due comunità sorte intorno al Mille, lungo l’asse viario italico che dalla Valle Peligna saliva agli Altipiani e per la Valle del Volturno portava sino a Benevento, erano fermamente interessate all’utilizzo di un’area, ricca di risorse boschive, di pascoli e di acque, fondamentali per la propria economia. Nell’estate del 1541 la lite sfociò in una vera guerra.
Come dirà Ezio Mattiocco: “Una guerra guerreggiata, con scaramucce, sassaiole e scontri a fuoco. un piccolo conflitto fatto in casa tra sulmonesi e abitanti di cansano, con i pescolani che in un primo momento stettero a guardare, poi avanzarono le proprie rivalse verso entrambi i contendenti. bellum in regno pacifico. fu la guerra delle campora”.
Di questo avvenimento il dott. Mattiocco di sulmona, grande e stimato studioso, tra i più valenti della nostra regione, con oltre 50 titoli all’attivo tra libri, saggi, articoli concernenti molteplici discipline (storia, archeologia, oreficeria, mappe geografiche, antico sistema viario della valle peligna e del circondario) ne ha fatto, alcuni anni addietro, una narrazione davvero piacevole (pubblicata, in sintesi, nell’estate 2012, dalla rivista d’abruzzo – edizioni menabò) che di seguito trascrivo:
“ Ci furono abusi e violenza da ambo le parti e i sulmonesi, riuniti in generale parlamento, decisero di risolvere la contesa armata manu. si chiusero le porte, furono gettati bandi per la terra, si compilarono le liste e i connestabili andarono casa per casa ad assoldare gente: un armigero per famiglia. il contingente, in numero circa ducentum armati, et armatis armis prohibitis, videlicet archabusciis cum miccias accesas libardis partisiomonis et aliis armis prohibitis, banderiis et tamburris, mosse un bel mattino per la via nova perturbandi, depredandi et movendi bello in regno pacifico… mentre la parte avversa (n.d.r. pescolani), con gran folla di terrazzani richiamata dalle campane suonate a martello, occupò i siti strategici per rintuzzare l’attacco. per quindici giorni et plus si scaramuzzò per li pianori e le colline. Ci furono scontri a fuoco, sassaiole e assalti all’arma bianca, con un paio di morti e alcuni feriti.” (Ezio Mattiocco, Le campora, una terra contesa).
I Pescolani ottennero, con la ricordata sentenza, la proprietà della maggior parte delle Campora. Per la nostra comunità, in quel tempo impegnata nella ricostruzione ed ampliamento del paese dopo il disastroso terremoto del 1456, il possesso di quell’area (bosco e prati) era di grande un’importanza per lo sviluppo economico, sociale e culturale della società pescolana, ma anche dal punto di vista politico.
Il Bosco della difesa in Primo Campo, per l’immaginario di chi qui è nato, è un luogo unico, magico, una sorta di tempio della natura, ancora sacro, come lo è stato per i nostri avi: un luogo che ci portiamo nel cuore e la cui protezione -oggi- dovrebbe essere maggiormente attenzionata. La strada del bosco era un tratto di via difficile e pericolosa soprattutto d’inverno. Le bufere di neve che coglievano d’improvviso i viandanti, ne mettevano a rischio la vita. In tanti l’hanno percorsa: pastori, boscaioli, carbonari, mercanti, eremiti, soldati, briganti. Di questo vi racconterò qualcosa in un prossimo scritto.
Luigi Sette
(Articolo e foto)