Difficile ma necessario raccontare una storia che tocca il cuore, ferma ogni istinto verso una felicità non raggiunta, mina il pensiero, giganteggia chi fa del bene senza render conto alla facciata della visibilità a tutti i costi. È un sabato qualunque, un sabato molisano che per cantarla alla Sergio Caputo : “Giù in strada per fortuna sono ancora tutti vivi / L’oroscopo pronostica sviluppi decisivi. Guidiamo allegramente è quasi l’ora delle streghe / C’è un’aria formidabile le stelle sono accese. E sembra un sabato qualunque un sabato italiano / Il peggio sembra essere passato. La notte è un dirigibile che ci porta via lontano”.
Il corso di Campobasso non è poi così copioso di gente che passeggia guardando le vetrine che si specchiano e non più così piene di gente attenta al capo da acquistare o al regalo da pensare da fare. È una fredda serata di gennaio, non smette di piovere e il passeggio è sinonimo di impronte da lasciare al posto della spensieratezza e della consapevole voglia di condivisione. Lo guardo cade inesorabilmente su una mamma che, al pianto del piccolo figlio di pochi anni d’età, si pone con la vergogna modesta ma composta, di chi non può soddisfare i desideri del desiderato fanciullo. Il pianto si fa rotto da singhiozii dal catarro struggente.
La piazza segue per istinto la scena e non sveglia l’alma propria chiudendola in quelle tasche buie che riscaldano le mani dal gelo dell’inverno. Tasche di cappotti griffati che in serbo conservano, sino alla spendita felice, molti fazzoletti di passione dorata, al tempo correlati alla capacità di spendita illimitata. Non una piega, non una sola idea di far sorridere il mondo circostante per donar certezze perdute a chi della fortuna ne fa sogno, e ne scrive solo frasi su diari difficilmente declinabili alla facile lettura. Il tempo passa in fretta, le vetrine dipingono quadri di luce che accendono sempre più la voglia di chi è fuori da esse e spera come ognuno che in loro si specchia, poter entrarvi dentro per far felice qualcuno molto caro.
Le casette di legno posizionate per il corso emanano profumi di festa. Il bimbo è stordito dal freddo, e il pianto alimenta angoscia al cuore di chi tende la mano che stretta porta a sé sino al dolore che sostanza lagrimale pone agli occhi non ridenti, ma intrisi di fluido non di certo gaudente al dolce battito delle ciglia ormai rigide. “Ti voglio bene amor mio, ti prego andiamo a casa, forse li troverai qualcosa che appagherà il tuo desiderio” – parole, quelle di una mamma che sa di non poter far felice un figlio ma spera come tutte, in un ritorno alla felicità. Parole piene di sapiente desiderio di scappar via e non tornare più a passeggiar per quel corso irriverente e freddo, dinanzi alla insopportabile ignavia dell’esser poveri fuori ma, per fortuna, non dentro. All’improvviso un giovane ragazzone, forse da poco maggiorenne, si avvicina al bimbo al quale sussurra –
“Mi chiamo Gianni ma mi chiamano tutti “Isola” per la mia attitudine a isolarmi per pensare a come possa io essere soddisfatto di me stesso e godermi quel pizzico di felicità che ancora cerco” -. Parole da adulto le sue, che, dirette ad un bimbo di pochi anni, sembrano cadere nel vuoto e non confortare i pianti del piccolo. Gianni si rivolge così alla giovane mamma, che si saprà poi, non convogliata a nozze e sola nella vita –“Non so se posso permettermi, ma essendo malato e della mia malattia ne nascondo le gesta che fungono da pungoli sul mio corpo, vorrei essermi utile e usar gentilezza nei confronti tuoi e di tuo figlio per sentirmi meglio e appagare la mia solitudine, irresponsabile del mio male ma, unica amica da sempre”.
Lo sguardo della giovane mamma diventa fermo, di ghiaccio e contornato di incredula sonorità. -Scappare via o permeare la tentazione di un sorriso? – Sarà stata la sera, il freddo o il pianto mai interrotto del piccolo pargolo, ma l’abbraccio alla vita diventa un passo inesauribile e comprensibilmente emotivo. Il dolore si concretizza in un turbinio di emozioni e la pace nel cuore viene sconfitta nel perdere la corruzione del male. Dalla tasca del cappotto griffato del ragazzo la mano trae la speranza e nel conseguire la stretta di quella del bimbo, ne frena il pianto e ridona serenità al cancellato pensiero di poter con esso trarre quel regalino che la mamma non avrebbe potuto mai offrire lui e così, ingenerare speranza di una calma e serenità dovuta.
Sarà stato il caso ma il fato accende una luce che porta dritti al negozio. Quel piccolo dono si è concretizzato grazie alla mera visione di un giovane che, seppur “diverso”, ha espresso come dono di speranza. La giovane donna nell’uscire dal negozio visibilmente sorridente, non reagisce al saluto dell’angelo vestito di un cappotto griffato. Appare spaesata e decisamente animata da raggi colorati dal tremore delle mani e dall’accapigliarsi i capelli. Ogni passo diventa felpato, pone le mani nelle tasche del giubbino ormai vecchio per riscaldar quanto è possibile le dita e, un altro regalo le appare. Di cosa non è dato a sapere, la lontananza e l’emozione non ha reso tangibile la visione.
Il pensiero però è vivido nel esprimersi e nel confortar la voglia di essere partecipi alla gioia altrui. La distrazione di un saluto di un amico estranea lo sguardo, la giovane donna non è più alla vista, il piccolo pargolo non lascia speranza di incontro poiché non si sente più nessun pianto. Del ragazzone dal cappotto griffato nemmeno l’ombra ma, nella tornata normalità, il corso di Campobasso forse, ha finalmente ritrovata, seppur per un attimo, un pizzico di fortunata felicità.
Può sembrare un racconto dedito dalla fantasia ma non lo è. È pura e vissuta realtà. La giovane mamma si chiama Anna. Che sia termine per condivisione, per tornare a parlare di perequazione, ma soprattutto di solidale emozione. Finalmente “C’è un’aria formidabile le stelle sono accese. E non sembra un sabato qualunque un sabato italiano / Il peggio sembra essere passato. La notte è un dirigibile che ci porta via lontano”.
Maurizio Varriano