Giornate frenetiche quelle milanesi. È febbraio, il mondo degli operatori del turismo si prepara a invadere la città italiana più europea per una tre giorni intensa, all’insegna del turismo classico, innovativo e di lungo respiro. Un viavai in giacca e cravatta per gli uomini e in tailleur griffati per le donne: sarà l’effetto Santanchè, vista l’atmosfera sfavillante di paillette e di lustrini.
Per fortuna c’è anche chi, in barba alle convenzioni, si presenta alla Borsa Internazionale del Turismo in veste più sobria e informale, quasi a voler sottolineare la pluralità di visioni che condizionano la scelta di mete, approcci, incontri, progetti. Hotel, dimore, loft, case vacanza sono presi d’assalto, e Milano reagisce bene all’impatto. Tutto funziona alla perfezione, a parte le lamentele di chi è costretto a subire l’onda non più tanto anomala, viste le decine di manifestazioni, rassegne, mostre e fiere che si susseguono nella città meneghina.
Ma la storia che vogliamo raccontare non è quella della frenesia e della ricchezza che vorticano all’ombra delle Tre Torri, o di quanto lavoro Milano riesca ad offrire anche nei lunghi mesi delle nebbie che si addensano sui navigli più famosi d’Europa. Non ci soffermeremo sulle guglie di un duomo che si accinge a mostrarsi al suo meglio dopo i recenti restauri, o della galleria che si assume l’onere di coprire il capo a chef stellati. Non parleremo neanche del castello, ormai sempre più solo in tema di antichità, o dei parchi disseminati qua e là che a malapena offrono un po’ di ossigeno alle giornate asfissiate dallo smog e appesantite da un’umidità che ristagna nelle ossa.
È doloroso farlo, ne siamo certi, ma questa volta parleremo di “gente di paese”; gente del Sud che se ne va, che arriva a Milano, e malgrado il cuore si fermi alla partenza non potrà tornare a casa se non da sconfitta.
Siamo appena al di fuori del margine orientale del centro, al di là dell’anello dei viali, zona Piola, dove studenti di ogni parte del mondo sperano di costruire il proprio futuro e quello delle generazioni che dovranno continuare a far grandi le proprie nazioni. A poche centinaia di passi dalla metro, in una tranquilla strada residenziale, ci aspetta un’accogliente struttura, 21 House of Stories il suo nome. La cifra di un’ospitalità che diventa esperienza scaturisce dal confronto tra persone di diverse culture ed estrazioni sociali, idee e punti di vista diversi o connessi.
L’ambiente è subito familiare, senza divise o tacchi a spillo. Gli operatori, giovani, professionali, ben adeguati alle loro mansioni, offrono il meglio con calorosa discrezione, di certo non settentrionale. Dopo il check-in e un brindisi di benvenuto, una voce ci interroga sull’identità territoriale del nostro gruppetto. «Tra di voi c’è un molisano?». Travolto dall’emotività di casa, la risposta è a trentadue denti: «Certamente, e ne sono fiero». Poche parole e le paratie della diga si aprono, lasciando scorrere il fiume della gioia per abbracciare la felicità di Lidia.
«Sono di Vastogirardi e già abbiamo ospitato molisani l’anno passato, sempre in occasione della Bit. Sento la nostalgia ma non nascondo che sarà difficile tornare in Molise. È la mia terra e la amo, ma è avara di affetto verso giovani e conterranei costretti ad andare via per tanti motivi, tra cui la mancanza di futuro. Si parla tanto di resilienza, ma la costante è l’emigrazione verso luoghi che offrono opportunità ben più confacenti alla dignità di chi studia e si pone al cospetto di un mondo decisamente più consono alle aspettative e alla realizzazione professionale. Ho ancora la residenza in Molise ma sarà dura continuare a mantenerla, per motivi legati a troppi carichi economici che non onorano chi spera in un ritorno da vincitore, non da sconfitto».
Parole forti, coraggiose, dettate da un amore che, come tante volte accade, non è corrisposto. D’obbligo perciò una telefonata ad Andrea Di Lucente, già sindaco di Vastogirardi e ora vicepresidente della Giunta Regionale del Molise. Il suo turbamento nello scambiare qualche parola con Lidia denota la difficoltà a sostenere una diversa opinione.
Il Molise è terra cruda, rurale, costantemente impoverita dalla fuga di menti e di braccia. La sua asperità severa potrebbe essere un punto di forza, eppure non riesce a tamponare la copiosa fuoriuscita di sangue molisano, e questa è la prima sconfitta. Il 2024 è l’anno del Turismo delle Radici, che dovrebbe consentire – il condizionale è d’obbligo, visto che il progetto partorito dal Ministero degli Affari Esteri non brilla né per chiarezza né per aderenza alla realtà – di dare sollievo a ferite di un tempo passato, mai rimarginate e sempre più dolorose. Identità territoriale e coerenza di intenti faticano a farsi strada tra le mura sempre più invalicabili di una politica troppo attenta alle parole e ai privilegi ma dimentica delle persone e dei fatti.
Intanto la luce si fa sempre più lontana ma la lontananza, si sa, è come il vento, spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi, brucia l’anima di chi non rinuncia al ricordo e non vorrebbe rinunciare neppure alla speranza. Il volto di Lidia è sorridente ma segnato da un solco che non lascia spazio ad equivoci, e quel solco si chiama amarezza.
Il Molise trasforma l’emigrazione in condizione e la condizione nel quotidiano di tante ragazze e tanti ragazzi che, come Lidia, nel cuore intriso di dolore e di nostalgia lasciano comunque spazio a memorie, affetti, passioni identitarie e chissà, all’idea di un ritorno che sappia davvero ripagare la sofferenza patita lontano da casa. I molisani sono disseminati nel mondo e quei semi, pur se hanno saputo dare frutti importanti, sono irrigati dal pianto. Sarà difficile asciugare lacrime di solitudine e forse di rabbia nel sapere che il proprio amore non è ricambiato, ma la speranza è l’ultima a morire e continua a brillare in quel grido: tornerò!
Maurizio Varriano