Prima dǝ Natalǝ né friddǝ né famǝ,
dopǝ Natalǝ lǝ friddǝ e la famǝ“
Si diceva così un tempo.
E questo proverbio sintetizzava la precarietà quotidiana di tante famiglie.
La povertà e le difficoltà, che crescevano con l’arrivo dell’inverno,
mettevano a dura prova tante mamme per preparare un pasto alla famiglia.
Una minestra, un cavolo e patate, una zuppa di fagioli.
Qualcosa di caldo che riscaldasse e riempisse lo stomaco.
Nei paesi di montagna era arduo attraversare l’inverno per la povera gente.
Fortunate le famiglie che potevano comprare e allevare per tempo un maiale;
una risorsa ( una volta abbattuto e lavorato) che, utilizzata con parsimonia,
dava una certa tranquillità in casa.
Il giorno della morte del maiale era una festa:“ lǝ nozzǝ purcegne “.
Tutti i parenti invitati.
Si mangiava e si beveva in grande allegria.
Il freddo, oltre alla fame, era un altro nemico da affrontare.
Chi non aveva soldi per rifornirsi della giusta provvista di legna (almeno due canne),
doveva, durante la buona stagione, approvvigionarsene direttamente.
E come?
Se disponeva di un cavallo, di un mulo o di un somaro, come poteva,
andava a far legna nel bosco.
Una soma di legna secca, mai legna verde, se si veniva beccati dalle guardie
forestali si rischiava il sequestro del carico, una multa e finanche una notte di galera.
Chi non possedeva un animale da soma se ne faceva prestare uno, per una
“soma ‘mbrestǝ”.
E allora, un giorno la “soma” (il carico di legna) andava al padrone dell’animale
e un giorno a lui.
E così avanti sino a quando la catasta fuori casa raggiungeva la giusta misura.
L’inverno era rigido e la neve cadeva copiosa.
Le case non erano riscaldate come oggi.
Un camino o una stufa erano sufficienti, nessuno si lamentava per il freddo.
Le famiglie crescevano numerose. Ma ci voleva la legna.
*
Tante donne si recavano, lungo un sentiero di montagna, alle Macchie
o al Carpineto ( il bosco delle donne, il più vicino al paese) a far legna.
Leggere e veloci come gazzelle, alcune con j ”pǝdjalǝ” ai piedi, con la
“spara”, j runcǝ“ e la “funa”, quasi tutti i giorni.
Molte non avevano un uomo in casa e dovevano provvedere da sole.
Tornavano con un fascio sulla testa prima di mezzogiorno;
lo scaricavano sotto casa e salivano a preparare un piatto
di minestra per sé e i figlioli.
Che donne!
Forti, asciutte, come la legna che riportavano a casa.
Ne ricordo diverse, ma una in particolare.
Era Annuccia, piccolina, magra, vestita di scuro.
Il fazzoletto in testa con la bordura riavvolta.
Lei li portava j “pǝdjalǝ”.
Usciva presto al mattino con le due figlie che aveva.
Abitava in via Porta Berardo, in una casa col vignale.
Salivano verso la montagna passando per la Pretara.
Tornavano sempre alla stessa ora.
In fila indiana, attraversavano la piazza, la madre in testa.
Erano tre fasci di legna.
Ma fame e il freddo anche di questi tempi si patiscono.
Quante persone per strada. Il lavoro che manca, le bollette da pagare,
i figli da crescere. I giovani che, quantunque lo studio, non trovano occupazione.
E sono costretti a lasciare la loro città, il proprio paese.
Il solstizio ibernale, la porta un tempo custodita
da Giano Bifronte, è passato.
I giorni vanno verso l’inverno. Impalpabilmente, avviano ad allungarsi.
La luce torna a vincere sul buio, sull’ inquietudine.
L’albero sulla piazza si è illuminato.
Siamo quasi a Natale.
Come un rosario che si ripassa: messaggi e auguri che si ripetono.
Frasi fatte, a volte fastidiose. Filmati, foto, stronzate.
Le Feste Natalizie sono anche questo.
Quasi mai due parole semplici, di cuore, per un augurio sincero,
che non sia il rinvio di un santino ripreso dal web per la centesima volta.
Macché!
Buon Natale a tutti.
Luigi Sette