L’intento del contributo redazionale è di fornire la mia esperienza su un tema che non sempre ci vede protagonisti, ma che spesso ci fa “deragliare” su standard e controlli che nulla hanno a che vedere con il malessere degli animali.
Dalla lettura del testo “Convivere, l’allevamento del futuro” di Carla De Benedictis, Francesca Pisseri, Pietro Venezia, tre colleghi che hanno evidenziato come l’allevamento industriale abbia strappato l’uomo e l’animale dalla relazione con l’ambiente naturale, ho ritrovando nel testo numerosi argomenti in comune con la mia (antica?) formazione universitaria.
Ho, pertanto, ritenuto di confrontare le mie conoscenze universitarie e post universitarie con la mia attuale attività professionale: quella di “autorità competente” al controllo del benessere animale.
Non vi è dubbio che negli ultimi anni ci sia stata molta attenzione al benessere animale, non sempre sostenuta da consapevolezza o padronanza di conoscenze “globali” e “sistemiche”. Anzi, piuttosto questa attenzione è stata spesso basata solo su una pedissequa ottemperanza a leggi, norme e check-list.
Per cui alla fine il risultato è stato quello di “giustificare” esclusivamente con norme e carte gli allevamenti industriali, modello, questo, in cui gli animali vivono in condizioni ben lontane dalle loro peculiarità di specie e, spesso, in condizioni di sofferenza. Si è perfino giunti a valutare l’affollamento negli allevamenti dei broilers con un tot di kg/metro quadrato.
Il malessere degli animali, risultato dell’industrializzazione spinta degli allevamenti, è la conseguenza di una pratica che rincorre esclusivamente il profitto (si badi bene non quello dell’allevatore, ma quella dell’industria degli alimenti) puntando allo sfruttamento massimo degli animali senza preoccuparsi della salvaguardia del territorio, delle tradizioni, del benessere animale, delle produzioni locali.
Insomma ci si concentra sulla standardizzazione di tutto: dei sapori, dei saperi, dei gusti, della stagionalità; neppure lontanamente si pensa alle sovrapproduzioni, che hanno come unica conseguenza la diminuzione del prezzo dei prodotti all’origine, tanto basta trasformarli per centuplicare il prezzo.
Questo problema di eccedenze in agricoltura è il principale fattore di crisi del settore. In questa pratica di allevamento, come sostiene Ruth Harrison, l’animale è considerato una macchina non un essere senziente.
Lo stato di malessere che l’animale vive in queste condizioni, oltre a rappresentare problemi di ordine sanitario, produttivi e ambientali, denota una grave perdita di conoscenze e civiltà.
Infatti, si è cominciato a parlare di benessere animale quando i fondi per la ricerca, soprattutto quelli erogati dall’industria alimentare, hanno riguardato solo un settore: la genetica. Sono stati “costruiti” animali ad altissima produzione, con indici di conversione folli, carni magrissime, tutto orientato al guadagno a discapito degli animali. Basti ricordare che il prof. Ballarini introdusse il termine “tecnopatia” per una serie di sindromi rilevate esclusivamente negli allevamenti intensivi.
Successivamente anche altri illustri autori si sono cimentati nel rapporto allevamento intensivo e tecnopatie.
Illuminante in tal senso il lavoro del prof. Petazzi sulla lipidosi epatica della bovina lattifera, nell’articolo l’autore, oltre all’excursus clinico, pone l’attenzione all’allevamento intensivo: «Anche questa patologia come molte altre, è da vedersi essenzialmente come una tecnopatia, l’ennesimo esempio di antitesi tra ordine e caos, la risultante della influenza su di un essere vivente di due diversi livelli di scorrimento della realtà, dettati, uno dai limiti anatomici, in lenta evoluzione sulla spinta della pressione selettiva, l’altro dalla spinta tecnologica subalterna all’imperativo della produzione; se la ricerca tende a mostrare l’immediato possibile vantaggio delle innovazioni tecnologiche, dalla esperienza nel tempo, risulta la documentazione degli effetti di forzatura della prima realtà ed il relativo reale conteggio costo beneficio degli interventi».
Da quanto esposto è dovere etico dedurre che parlare di benessere significa spiegare, innanzi tutto ai consumatori, come stanno veramente le cose e che prezzo e quali sacrifici gli animali sono costretti a pagare a beneficio dell’uomo, senza considerare l’impatto sull’ambiente e sui prodotti trasformati.
Quando si interviene nel dibattito sul benessere animale, specialmente negli allevamenti intensivi, sarebbe necessario partire da due principi fondamentali:
1. qual è la definizione di benessere animale alla base dei nostri ragionamenti, del nostro agire e del modo di legiferare;
2. si esplicitano e dichiarano preliminarmente e con estrema schiettezza quale visione di allevamento si ha e l’obiettivo che si vuol perseguire.
In sostanza, è necessario dichiarare prima gli eventuali conflitti di interesse e gli obiettivi da perseguire, poiché, qualsiasi modello di sviluppo, qualsiasi percorso strategico non può prescindere da quanto detto poc’anzi. Il resto è tattica. E la tattica non governa i popoli né conduce a una società giusta e cosciente di se stessa.
Ma vediamo perché, nel caso de veterinari, è necessario esplicitare e dichiarare i due principi suddetti. Innanzitutto ciò è previsto dal nostro codice deontologico (articoli 11, 14 e 29) per cui è necessario avere almeno in comune la definizione di “benessere animale” e capire se sussistono conflitti di interesse.
Provo, nel ragionamento che segue, a dare una risposta ai due quesiti posti e ad aprire un dibattito sul tema e quindi sulla “qualità” dei controlli eseguiti dall’autorità competente.
Di seguito sono riportati due concetti che definiscono il benessere animale tratti da:
– “Per un Codice degli Animali”: «Con l’espressione animal welfare si allude a un insieme di conoscenze interdisciplinari, di carattere prevalentemente tecnico-scientifico, che si avvale del contributo di anatomia, fisiologia, neurologia, psicologia, etologia ed ecologia, per definire i concetti di benessere e stress negli animali».
– “Stress and Animal Welfare” in cui gli autori (Broom e Johnson) descrivono una definizione che appare sufficientemente completa qualificando il benessere animale come «lo stato di un individuo in rapporto ai suoi tentativi di adattarsi all’ambiente».
Benché paia rigorosamente tecnica questa definizione ha comportato di fatto un’implicita legittimazione di qualunque uso degli animali. Infatti, sempre secondo i due autori, «lo studio del benessere animale può dirsi correttamente scientifico solo se esso è liberato dalla subordinazione alle esigenze di mercato e può progredire nella ricerca continua di un miglioramento del benessere individuale». Come si vede la definizione di animal welfare per avere un rigore scientifico e ragionevole deve passare attraverso il secondo principio suddetto.”
L’assenza di conflitto di interesse con la conseguente astensione quando presente (vedi codice deontologico).
Ho evidenziato i due principi presupposti perché il chiarimento sulla definizione di benessere e l’affermazione di assenza di conflitti d’interesse rivela la volontà o meno di trattare le prassi di allevamento nello scenario giusto anche se ampio e complesso: l’agricoltura, l’ambiente e l’uomo inteso come consumatore e come allevatore.
Un approccio così inteso, sorretto da un sistema di scienza e soprattutto di etica, vuole disegnare ed applicare un modello di comportamenti alla realtà globale (ecosistema) e alla realtà agraria (agroecosistema).
Nei modelli che si basano su osservazioni sistemi che i vari componenti sono fisicamente distinti, ma interagiscono e contribuiscono al funzionamento unitario dell’intero sistema. Le varie parti sono complementari e funzionano in modo integrato conducendo, nel caso dei sistemi agrozootecnici, a funzioni strumentalmente utili al mantenimento e rinnovamento dell’intero sistema.
Gli allevamenti super industrializzati non sono più sostenibili né dal punto di vista ambientale né sociale, anzi hanno già messo a repentaglio la sostenibilità ambientale, la salute umana e la sopravvivenza economica dei piccoli agricoltori e delle comunità rurali. Per cui se parliamo di benessere animale dobbiamo tener conto di un sistema di allevamento con impostazione agroecologica a seconda di quale area del Paese stiamo osservando o studiando.
Il benessere degli animali allevati inizia con la conoscenza del tipo di territorio e le razze ivi allevate.
Invece, attualmente, il benessere inizia dalla perfetta conoscenza delle chek list e dalla loro esatta compilazione che non tiene conto di una serie di parametri fisiologici, patologici e ambientali. Quindi il veterinario non fa più “diagnosi e cura” né si prende cura degli animali, ma accerta solo non conformità (a cosa) in base a un modello standard e irroga sanzioni.
Credo che neppure serva riferirsi a marchi o certificazioni, ma occorre conoscere e applicare tecniche di produzione non impattanti e che utilizzino risorse che il territorio offre (tutti i pascoli sono abbandonati).
Per dirla con il prof. Fabio Caporali docente di ecologia agraria dell’università della Tuscia: «La tradizione italiana è ricca di documenti, insegnamenti e segni sul territorio che illuminano su come progettare e gestire gli agroecosistemi in un regime di piena utilizzazione delle risorse locali. Recuperare l’umiltà di apprendere dalla storia della civilizzazione agraria è una delle componenti importanti per la formazione di una coscienza ecologica orientata alla sostenibilità.
Le soluzioni tecnologiche più sicure sono quelle convalidate dall’esperienza storica di pratiche agricole. L’ortodossia agronomica e l’innovazione ecologica costituiscono la migliore garanzia e il fondamento su cui edificare il progetto di un’agricoltura sostenibile, praticabile localmente secondo criteri di equità sociale e di cura per gli animali e l’ambiente».
Voglio concludere con le parole del prof. Ferruccio Petazzi docente di Clinica medica veterinaria: «Nel ruolo del tecnico dell’allevamento, deve rientrare la capacità di individuare il limite produttivo dei singoli e del gruppo, ed è sulla base di una corretta valutazione di questo possibile che, nell’allevamento, potrà instaurarsi una situazione di benessere generalizzato, imprescindibile per la migliore resa economica».
Ecco in queste parole è descritto esattamente il ruolo e la mission del veterinario. Quindi impariamo a non disperdere il prezioso bagaglio che “vecchi” maestri della Veterinaria ci hanno lasciato e tramandato perché con questa “cultura” potremmo contribuire a realizzare una zootecnia di animali con malessere trascurabile.
*Angelo Niro
(Presidente Ordine Medici Veterinari Campobasso)
*Articolo pubblicato sulla Rivista Trimestrale ‘Argomenti‘ – Edizione Veterinarie e Agrozootecniche