#parolaviva In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
#vivilaparola Un’esistenza abbondante di frutti è la gioia del cuore oltre che un bel vedere, rallegra l’anima e consola lo spirito, ripaga di ogni fatica. Ogni persona desidera vedere fiorire la propria vita e raccogliere qualcosa di favorevole dai propri sacrifici: contrariamente c’è grande delusione quando dopo il tanto impegno il raccolto è magro oppure inesistente, tristezza infinita quando viene spazzato via dalla tempesta.
Nella società contadina possedere una vigna, coltivarla e produrre gustosi grappoli d’uva e del buon vino, era un orgoglio, non soltanto perché espressione di una ricchezza, ma principalmente perché era indice di quella felice partecipazione all’opera creatrice della terra e di cooperazione con le proprie mani al mistero della generazione del mondo. Un’arte che richiede un lungo apprendistato alla scuola di un’altra sapienza: quella che nasce dalla pazienza dell’umiltà l’humus da cui nascono le cose vere e belle. In uno dei suoi discorsi ultimi Gesù utilizza l’immagine della vigna per condividere con i suoi interlocutori la profondità di Dio e svelare il segreto per una vita felice.
Dio nei panni del vignaiolo che ha come trono la terra e come scettro la zappa, stupisce, eppure al di là dei nostri pregiudizi, è proprio così che viene a noi: non con gli eserciti e le schiere trionfanti, bensì nei panni di un umile contadino che si prende cura della sua vigna, per cui suda, mette i calli alle mani e non ci dorme la notte pur di favorirne la fioritura. Il Cristianesimo non è un aula di tribunale, Dio non è un giudice che emette sentenze, ma un vignaiolo che ama il suo campo e si adopera in ogni modo perché fruttifichi vanga, pota, attende. In quest’opera meravigliosa noi non siamo paragonati semplicemente ai tralci, ma siamo parte della stessa pianta, dove Gesù si mostra come la vite: e soltanto restando uniti alla vite possiamo portare frutti.
La fede non è recezione passiva di precetti, bensì partecipazione, relazione, in cui umanità e Dio fanno parte della stessa pianta, si nutrono della medesima linfa…vivono dello stesso amore. Il verbo che utilizza il Vangelo è “rimanere”: per vivere il tralcio deve restare nella vite. Fuori da essa muore. Perché la nostra vita sia felice diviene necessario essere nella relazione intima con Gesù: fuori non possiamo fare nulla. Non si tratta di esclusione ma della logica della vita, della tensione che la anima, e della passione che la attraversa. Dall’altro verso la vite ha bisogno dei tralci altrimenti non dà frutto: senza il nostro quotidiano “si” non ci può essere niente, nessuna storia. Noi senza Dio non saremmo figli ma Dio senza di noi sarebbe un padre a metà.
#farsiparola Chi è rimasto unito a Gesù come il tralcio alla vite ed ha portato frutto di santità è stato Giustino Russolillo: nacque il 18 gennaio 1891, nella cittadina di Pianura di Napoli. Sperimentò in prima persona le difficoltà cui può andare incontro un giovane che desideri diventare prete, ma non ne ha i mezzi. Anche per questo motivo promise solennemente al Signore, proprio nel giorno della sua ordinazione sacerdotale, che avrebbe fondato un’opera per aiutare i giovani e i ragazzi in tal senso.
Ed è quanto ha fatto: il 18 ottobre del 1920 diede vita alla Società Divine Vocazioni (o Padri Vocazionisti) con alcuni dei ragazzi più motivati che già l’avevano seguito. Don Giustino venerava in ogni persona l’immagine di Dio Trinità, era convinto che anche dietro la scorza del più incallito peccatore si nascondesse un possibile santo. Il 2 ottobre 1921, invece, fu l’inizio delle Suore delle Divine Vocazioni (o Suore Vocazioniste), formate da alcune ragazze alle quali faceva da direttore spirituale. Pensava anche ad un Istituto secolare femminile, sorto dopo la sua morte col nome di Apostole Vocazioniste della Santificazione Universale.
Prolifico scrittore e predicatore, basò la sua spiritualità sulla divina unione dell’anima con la Santissima Trinità e sulla comune chiamata alla santità. Morì per una forma di leucemia il 2 agosto 1955. È stato beatificato il 7 maggio 2011, sotto il pontificato di papa Benedetto XVI. Il prossimo 3 maggio papa Francesco lo dichiarerà santo. Don Giustino guidò le sue Congregazioni proponendo alle anime la spiritualità dell’unione intima con Dio con le tre persone della Santissima Trinità. Esortava tutti a rimanere uniti a Gesù, come il tralcio alla vite, per mezzo del cui cuore è possibile unirsi nelle relazione sponsale con la Trinità e ascendere alle vette della santità.
In tempi in cui la santità appariva ancora un traguardo riservato solo ad alcune categorie di persone, don Giustino è stato promotore e sostenitore convinto del movimento della santificazione universale, che allora nasceva in Europa. Il suo saluto abituale era «Fatti santo», completato a volte come «Fatti santo davvero, che tutto il resto è zero».