Quel giorno c’ero e mi trovavo sugli sci da fondo a compiere la solita sciata domenicale sugli altopiani. Era uno dei primi giorni di marzo e il freddo pungente dell’inverno si faceva ancora sentire. Un leggero velo di nebbia notturna mista a una coltre di neve spessa copriva ancora i Quarti sotto Pescocostanzo. Ma quella nebbia non mi impedì di scorgere che nel piccolo aeroporto posto sotto il paese fervevano strani preparativi. Incuriosito mi avvicinai alla pista.
Tutti gli aerei che attrezzavano il piccolo campo di aviazione erano bloccati sopra le loro ruote negli hangar, perché con la neve stesa sulla pista per loro era impossibile alzarsi in volo. Ma c’era un aereo un po’ diverso da questi, insolito, l’avevano messo in bella vista davanti alla pista, perché aveva due lunghi sci di metallo al posto delle ruote principali e uno sci piccolino al posto di quella posteriore di appoggio; si capiva che era pronto per volare.
Tanta gente gli girava intorno e tutti si abbassavano e poi si alzavano quasi ritmicamente per osservarlo meglio in due punti precisi, là dove l’aereo si congiungeva con il suolo o per meglio dire con la neve, lì c’erano gli sci. Quegli sci erano una novità. E lui sì che si poteva alzare in volo quella prima domenica di marzo del 1930.
Io nello zainetto portavo normalmente una macchina fotografica per documentare all’occorrenza tutto ciò che la natura imbiancata mi suggeriva in ogni dove. E mentre fermo ero appoggiato ai bastoncini di bambù, per cercare di capire meglio cosa stesse accadendo, all’improvviso sentii una mano che mi toccava le spalle con una certa energia.
Girandomi mi trovai di fronte a quell’uomo con il pizzetto a triangolo ormai noto a tutti; aveva l’austerità del ministro e il piglio del pilota. L’avevo intravisto il giorno prima davanti all’albergo Savoia attorniato da tanti ufficiali dell’Aeronautica, radunati sui campi di neve di Roccaraso per un corso di addestramento. Ma non feci in tempo a meravigliarmi, che Italo Balbo, si proprio lui, con ferma decisione quasi mi ordinò di salire su quell’aereo che avrebbe pilotato a breve. Ma, signor ministro, io non sono un pilota, non sono un giornalista, prenda con sé quello lì, è del Popolo d’Italia, un giornale importante. No, venga lei, replicò. Ho in mente una cosa particolare.
Stamane con altri piloti proveremo e riproveremo partenze e atterraggi sulla pista innevata, ma nel pomeriggio voglio atterrare e ripartire fuori campo su spiazzi nascosti e sufficientemente ampi. Lei che con gli sci gira dappertutto è la, persona giusta che potrà indicarmeli dall’alto. Sarà questo il vero primato che voglio conseguire. E così un giorno lei racconterà bene l’avvenimento. Diamine!
Qualcuno dovrà pur ricordare che qui c’era un campo di aviazione e che addirittura fu proprio Italo Balbo, il Ministro dell’Aeronautica, che compì questa piccola impresa, importante per il futuro dell’aviazione in montagna. È questa la vera novità del giorno, voglio dimostrare che con gli sci sotto la fusoliera si può far atterrare e ripartire un aereo in montagna, soprattutto dove di altopiani così estesi non ce ne sono. Beati voi che li avete così grandi!
Sorpreso e confuso, ma non timoroso per non essere mai salito su un aereo, non battei ciglio; l’ordine di un ministro non si discute. Così, mentre mi aggiustavo sulla testa la cuffia di cuoio con un occhialone a lenti scure e allacciavo la cintura di sicurezza, sentii che il motore saliva presto di giri. Anche il mio cuore stava subendo un’accelerazione e il respiro si era infittito.

Seduto sul seggiolino le gambe non mi tremavano, forse perché era tanta la curiosità. Ci alzammo in volo con una leggerezza rassicurante e il fruscio degli sci sulla neve che diminuiva progressivamente fu l’unico segnale che mi fece capire di essere ormai avvolti completamente dall’aria.
E quell’aria frizzante, ma ancora carica d’umidità, evidenziò in me il coraggio affibbiato da quelle parole così decise di Balbo, che mi indusse, quasi senza accorgermene, a scattare le prime foto della gente che ci salutava, mentre appariva sempre più piccola davanti a quegli hangar anch’essi bianchi come la neve.
Il pilota aveva compiuto un ampio giro intorno pista ed aveva preso quota e così mi disse che eravamo intorno ai trecento metri di altezza.
Quella è Pesco Signor Ministro, ci deve andare per scoprire cosa c’è dentro quei palazzi, quelle chiese ne sono circa una trentina. C’è qualcosa che non può immaginare: pietre squadrate o arrotondate, marmi lavorati minutamente, colori antichi di immagini sacre, tessuti, legno intarsiato e coperto di oro zecchino, capitelli di legno che raffigurano un drago; il ferro battuto, la filigrana e i merletti a tombolo hanno un’anima. E poi laggiù, dove il piano si chiude c‘è un bosco incomparabile, con faggi secolari ed uno in particolare rassomiglia ad un gigantesco candelabro.
Ci arrivammo e compiuto un ampio giro sotto la cresta del Monte Rotella ecco che ci appare dopo il paese uno di quei piccoli pianori che il pilota cercava; era lì, disteso affianco alla stazione del treno, glielo indicai e lui accennò col capo. Poi gli dissi di virare verso Monte Tocco, perché in un paio di punti, ai suoi piedi c’era da atterrare e ripartire in un fazzoletto di terra, anzi di neve. Si voltò e annuì col capo pieno di soddisfazione.
Girò sul bordo degli altri due Quarti e appena superato Pizzo di Coda tirò dritto su Rivisondoli e Roccaraso, dove seguì il viale. Scattai diverse foto sul mio paese e sui campi di sci colmi di sciatori. Guardi Ministro, vede quella torre? In mezzo a quel groviglio di case c’è la mia, quella più in alto di tutte. Balbo fece un ok con la mano destra e ci passò sopra quasi a sfiorare i tetti.
Proseguì con un’ampia virata e puntò su Monte Tocco e da lì quasi precipitammo sul campo di volo. Toccammo la neve e il fruscio degli sci che tornò a graffiarla progressivamente mi ricordò che quegli attrezzi a me noti stavano proprio sotto di noi, forse emozionati per la novità che li vedeva protagonisti in maniera inconsueta e innovativa. Incredibile! Quelli da fondo, quelli da salto, quelli da discesa, ma quelli di un aereo non li avrei mai immaginati. E poi, esserci salito su mai e poi mai.
Quando scendemmo dall’aereo chiesi a Balbo chi normalmente volava al suo fianco. Con il solito piglio, ma anche con una bella soddisfazione mi rispose: Cagna, Stefano Cagna. Lo conosce? No Ministro, non lo conosco. Sappi che è uno dei migliori piloti dell’Aeronautica, perciò lo voglio sempre al mio fianco. E mente lo ascoltavo mi levai gli occhialoni.
Il sole, che aveva dissolto l’ultima nebbia, con i suoi raggi fendenti di rimbalzo sulla neve mi accecò facendomi perdere l’equilibrio. Così allargai le braccia, ma sotto le dita sentii qualcosa di diverso dalla neve. Toccai meglio con i polpastrelli e mi resi conto che stavo sfiorando il pavimento di legno della camera da letto. No, non ero atterrato su un campo di neve, stavo dormendo ed avevo sognato di volare.
Preso da quel sogno, ad occhi aperti e nel buio della notte l’ho voluto proseguire volontariamente.
Era ormai mezzogiorno di una domenica di fine inverno e quel piccolo aereo continuava a sorvolare, quasi sfiorare i tetti della bella Pescocostanzo. Volavano con il ministro alcuni ufficiali dell’Aeronautica e pure dell’Esercito.
Per ultimo dietro a Italo Balbo salì un pilota vero. Il nome? Per me non poteva che essere Cagna. Stuin, Stefano, come lo chiamavano i suoi concittadini e come lo stesso ministro amava chiamarlo. Con lui l’aereo a doppi comandi aveva preso un altro verso, più disinvolto, acrobatico direi; virate più secche e precise, addirittura un tonneau proprio sulla pista. In paese i pescolani li guardavano col naso all’insù.
Le donne che a ora di pranzo stavano finendo di ammassare gnocchi e chitarrine domenicali, incuriosite dallo sferzare nell’aria delle eliche del monoplano, si affacciarono ai balconi con una mano sul senale ancora intrisa della farina e l’altra alzata in segno di saluto. Anche i cani pastori abruzzesi a guardia delle masserie abbaiavano girando su se stessi, sicuramente spaventati, o chissà, forse anche loro facevano così per salutarli.
Era il primo pomeriggio e ormai, con la voce che si era sparsa, i numerosi sciatori presenti su queste montagne incuriositi dall’avvenimento e dalla presenza del ministro avevano abbandonato i campi da sci per recarsi sul campo di aviazione e tutti, mentre ascoltavano il rombo dell’aereo in lontananza, stavano con gli occhi rivolti verso il cielo a interpretare da dove sarebbe arrivato il piccolo aereo che si risollevava dalla neve dopo che il ministro lo aveva fatto scendere su quei piccoli pianori annidati in punti quasi inaccessibili per via della neve.
Insomma una giornata di festa per Pescocostanzo. E alla fine della sperimentazione, quando l’aereo col barbuto pilota soddisfatto delle prove si allineò alla pista per discendervi sopra leggero, il Parroco, che si era alzato fin sopra il campanile per godersi lo spettacolo dall’alto, non poté fare a meno di stringere alternativamente le corde delle campane ed intonare un tripudio di suoni che s’udivano in ogni dove.
Ugo Del Castello
Dal mio libro: E ANCORA GLI SCI In volo su Pescocostanzo con Italo Balbo