Io c’ero. Alle dieci del mattino di quel 18 settembre alla stazione ferroviaria di Roccaraso, nuova ed elegante, tipico esempio di architettura ferroviaria dell’Ottocento; ero lì munito del taccuino e della matita del cronista.
Per l’evento avevo indossato l’abito nero della festa, per una grande festa, epocale, disegnata con bandiere tricolori e coccarde azzurre appese dappertutto: alle finestre delle case, quelle affacciate sul dirupo della Terra Vecchia sopra la ferrovia, alla torre dell’orologio, lungo la strada principale che scendeva dal paese e sugli alberi che l’affiancavano fin verso la stazione.
Ero con la gente della mia Roccaraso, quella delle grandi occasioni, che a quell’epoca però non andavano oltre la festa del patrono sant’Ippolito, caratterizzata da abiti profumati di pulito, stirati con il ferro messo a scaldare sul fuoco della furnacella, l’antica cucina economica.
Le donne erano assiepate in un angolo della stazione, pronte a intonare una canzone di augurio, tutte rigorosamente vestite di nero, con la sola camicetta bianca, un fazzolettone sulla testa legato ai capelli con una grossa spilla e sul davanti, penzolante, il senàle, un elegante grembiule verde come l’erba dei prati che ci circondano, ricamato con i fiori multicolori che a primavera li ricoprono.
C’era il Sindaco, l’avvocato Berardino Giancola; c’era il dottore roccolano Giuseppe Marcone, esimio professore alla facoltà di Veterinaria di Pisa; c’era l’oratore ufficiale, il commendatore Nicola Falconi di Capracotta, deputato al Parlamento; c’era la banda lillipuziana di Roccaraso, che il maestro non riusciva a tenere ferma e in silenzio aspettando di intonare la Marcia Reale; c’erano le altre illustri personalità civili e militari e altre ne avrebbe scaricate quel treno inaugurale, partito da Castellamare Adriatico per Isernia. Perché qui, nella stazione di Roccaraso, si sarebbe tenuto il discorso ufficiale. Non poteva essere altrimenti.
Un brusio sommesso riempiva l’aria frizzante di quel giorno di fine estate e il sole, di un giallo sfumato e inclinato nel cielo azzurro, allungava sempre più i raggi sui nuovi e lucenti binari della ferrovia sferzando gli occhi di chi cercava la vaporiera all’orizzonte.
Ma più dello sguardo, all’erta erano le orecchie, per cogliere il primo fischio sibilante, sicuramente pronunciato all’uscita della galleria che si affaccia sulla discesa del Prato.
Ma tutti, più del treno cercavano qualcuno: per abbracciarlo, farlo accomodare al posto d’onore, ringraziarlo per aver portato su queste montagne il carro di ferro del nuovo mondo.
Ma quell’uomo, nato nel lontano 25 febbraio 1826, al civico 12 di via del Colle, da donna Diletta Tatozzi e don Girolamo, non c‘era più, si era spento cinque anni prima, il 30 dicembre 1891. Quell’uomo si chiamava Giuseppe Andrea Angeloni.
Era stato deputato al Parlamento per ventisei anni e anche sottosegretario del Ministero dei Lavori pubblici, ma soprattutto era stato il tenace sostenitore della costruzione delle linee ferroviarie abruzzesi, in particolare di quella che ancora oggi attraversa la sua terra ed il suo paese.
Mai avrebbe pensato che quel treno avrebbe portato una ricchezza diversa da quella immaginata nel suo progetto. Certo, aveva in mente di far uscire questa terra dall’isolamento atavico, pensava al miglioramento delle attività legate alla pastorizia, ma mai avrebbe immaginato che la svolta sarebbe arrivata dalla neve, matrigna d’inverno fino a quei giorni. Eppure di lì a poco, una moltitudine di assi cornuti avrebbe cominciato a tracciare sulla coltre bianca solchi dritti o virati, segno di una nuova epoca, quella sciistica legata indissolubilmente al turismo.
Tante persone fino ad allora attraversavano il Valico di Roccaraso e gli Altopiani sfidando le bufere e addirittura l’assalto dei briganti. Ma da quel 18 settembre 1897, pian piano, i primi viaggiatori alla scoperta dell’Abruzzo sarebbero arrivati fin quassù, prima ospiti nelle case patrizie, poi nei primi alberghi che già all’inizio del ‘900 sorgevano lungo il viale Roma.
Arrivarono perfino i Reali di Casa Savoia e i principi Giovanna e Umberto strinsero una sincera amicizia con i roccolani. I primi sciatori salirono da Roma e poi da Napoli.
I trampolini di salto e la slittovia qualificarono e consolidarono l’attività sciistica. Quante cose scaricò quel treno per fare di Roccaraso una delle prime località della montagna italiana.
Insomma, se il barone Angeloni fosse vissuto ancora un po’ sarebbe stato ben orgoglioso di aver portato fin quassù quel carro di ferro che rompeva l’aria col suo fischio e che annunciava ogni giorno l’arrivo di turisti e sciatori. E con loro il benessere per la sua gente.
Giuseppe Andrea Angeloni è stato certamente l’uomo più importante nato a Roccaraso. Io ricordo, come se fosse oggi, grazie al suo impegno, apparire in fondo a quelle due linee parallele e luccicanti la sagoma nera del treno, sbuffante, con due bandiere sabaude incrociate davanti al muso sorridente, mentre fischiava una musica nuova.
Una musica tanto nuova mai udita prima di allora in paese e tantomeno nel teatro di Roccaraso, da quando un altro Angeloni, Donato Berardino, lo fece costruire nel 1698 …ad animorum solatiun ac iuventutis profectum ad propriae sobolis commoditatem… e cioè a sollazzo delle anime, a profitto della gioventù, a comodità della propria famiglia (come recitava l’epigrafe all’ingresso del teatro, oggi in parte conservata in forma di stele davanti alla chiesa Madre).
Ugo Del Castello
dal mio libro:
Roccaraso, due solchi sulla neve lunghi 100’anni